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Articoli su art a part of cult(ure)

qui man di nuoro 15/07/2012
sardegna oggi, tra omologazione, sperimentazione e tv-spazzatura 11/01/2013
artist-in-residence exhibition. fondazione macc calesetta 04/02/2013
99 ideas. call for sulcis: ed ora anche l'arte e la cultura dimostrino... 10/03/2013
sardegna isola felice? e perché dovrebbe esserlo! 09/04/2013
l'isola che non ti aspetti è qui 11/07/2013
Se la provincia cerca di ucciderti allora reagisci per primo. 10/02/2014
macc di calasetta un viaggio senza ritorno 1/04/2014


MACC di Calasetta: un viaggio senza ritorno? 




L’avevamo anticipato nell’articolo precedente: dopo aver indotto alle dimissioni il Leone d’Oro Stefano Rabolli Pansera, la Fondazione MACC ha nominato come nuovo direttore (art director?) l’artista, critico, incisore, nonché docente dell’Accademia di Torino, Pino Mantovani.

Ma non finisce qui: il museo verrà dedicato esclusivamente alla valorizzazione della collezione, quindi non sarà più sede delle attività legate alla residenza dei giovani artisti, i quali dovranno operare nella galleria (a cielo aperto) di Mangiabarche.

In parole povere, quella che rappresentava la vera novità del progetto Beyond Entropy, cioè il mettere in relazione dinamica museo, galleria Mangiabarche, residenze e giovani artisti, viene di fatto azzerata, silurando Rabolli Pansera per eccessiva innovazione ma facendo girare la voce sui presunti alti (?) costi delle residenze. Girare la voce è il termine giusto, e non solo per descrivere una realtà sociale (del resto Calasetta è un piccolo centro del Sulcis), ma soprattutto per rimarcare il fatto che nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata e nessun bando pubblico è stato necessario, arrivando nell’assoluto silenzio (anche da parte del mondo dell’arte isolano) ad una soluzione che potrebbe mettere a rischio il prezioso lavoro fatto finora.


una sala del museo durante una residenza
Costi che non deve essere stato poi così difficile far passare per insostenibili, soprattutto di questi tempi e da queste parti. Una cifra probabilmente al di sopra delle normali spese pensate e dedicate all’arte e alla cultura, ma fatta girare senza evidenziarne l’onestà delle singole voci. Per quello che abbiamo potuto dedurre dalle nostre informazioni il capitolo è composto da normalissimi costi di viaggio a/r (prevalentemente low cost), molti dei quali da Londra (area da cui provenivano, oltre che lo stesso direttore, la gran parte degli artisti in residenza), un mese di permanenza (in popolarissima casa in affitto a bassissimo canone) con pranzi il più delle volte frugali (quasi sempre in casa o nello studio nel museo ma raramente al ristorante), un modesto ma sufficiente rimborso spese, un piccolo contributo per la produzione delle opere, in molte occasioni realizzate quasi a costo zero, spesso con l’aiuto di artigiani e mano d’opera locale (questa mai a costo zero). Moltiplichiamo il tutto per quasi un anno di attività con una turnazione media di due artisti al mese, mettiamoci su un altro preventivo per imbiancare ogni tanto alcune pareti per cancellare gli interventi site specific degli artisti ed eccoci arrivati ad una cifra abbastanza consistente, utile per dimostrarci di essere stati bravi (o costretti?) nell’aver messo in luce e posto rimedio all’insostenibile spreco e all’impopolare sprecone. Poco importa che allo stesso costo di una serie di mostre tradizionali (dello stesso livello e numero) la Fondazione ed il Comune di Calasetta hanno potuto contare su un’attenzione mediatica senza precedenti e per ogni giorno dell’anno. Il clima che si respira è pesante, molti degli addetti ai lavori preferiscono aspettare comunicazioni ufficiali ed un riscontro oggettivo nei dati, ma a me basta osservare che la programmazione è ferma da quasi cinque mesi e che la residenza di Giorgio Andreotta Calò prevista per Dicembre non ha avuto luogo: questo sarebbe dovuto bastare per mettere in allarme, ma niente di tutto ciò è accaduto, solo un preoccupante grande silenzio.
Certo, ad oggi, nessuna notizia lascia intendere che le residenze verranno meno e che prima di esprimere un giudizio così preoccupato come il nostro bisognerebbe attendere di conoscere il programma del nuovo direttore, ma la puzza di bruciato è piuttosto forte e se a bruciare non fosse la speranza che il Sulcis possa essere qualcosa di più che il territorio più povero, più inquinato, più depresso, più ostile e… più assistito d’Italia.
Nella Fondazione, nell’amministrazione locale e nella popolazione sicuramente qualcuno si è indignato per la presenza di opere e di pratiche curatoriali poco rispettose della collezione, che ha rischiato di passare in secondo piano rispetto all’irruenza visiva e mediatica dei giovani artisti.

Ma l’ipocrisia è lunga quanto la memoria sembra essere corta: nel 2000, quando fu inaugurato il Museo (voluto dall’artista Ermanno Leinardi 1933-2006), l’evento dovette svolgersi con la presenza delle forze dell’ordine, chiamate per proteggere la collezione da una popolazione infuriata, scatenata ad arte da chi le aveva fatto credere che il comune avesse speso addirittura un miliardo delle vecchie lire, quando in realtà essa non costò neppure un centesimo alle casse comunali.

un'incisione del nuovo direttore Pino Mantovani
Ci fa sicuramente piacere tutto questo rinato ed improvviso amore verso il museo e la collezione, ma ricordo di aver visto personalmente i registi delle presenze prima che arrivasse Stefano Rabolli Pansera, e aggiungerei la bravissima Valeria Frisolone (anch’essa messa alla porta?): ebbene, nonostante il museo fosse aperto tutto l’anno, non trovai che la presenza di non più di dieci persone al mese, a parte naturalmente il periodo estivo. Certo valorizzare la collezione è importante, anzi direi fondamentale, dal momento che si tratta di una delle più importanti in Italia per quanto riguarda l’arte astratta: prestigiosa soprattutto nei nomi però, non di certo nella qualità nelle opere, donate dagli artisti amici ed ospiti di Ermanno Leinardi nella sua meravigliosa Calasetta. Giocoforza, quasi nessuno degli artisti, di ben altro successo rispetto al locale maestro, ha risposto a tanta sincera ospitalità con un capolavoro o sua indimenticabile opera fondamentale. Ma cosa c’è di peggio per valorizzare una collezione d’arte astratta che mettere come nuovo direttore un artista figurativo (nel senso più banale e deleterio del termine) tradendo proprio l’utopia estetica e rivoluzionaria portata avanti dall’arte astratta che tanto si vorrebbe difendere e valorizzare? Non sarebbe stato più coerente portare avanti il progetto (recuperando altre necessarie risorse) che invitava gli artisti ospiti (alcuni dei quali, seppur giovani, con una promettente e concreta carriera artistica e commerciale) a produrre chances per capolavori, per arricchire ed aggiornare la collezione?
Non vorremmo che tutto questo monta, smonta e rimonta finisca per essere la solita sfida tra un’arte che si appende alle pareti e alla pacifica coscienza collettiva V/S quella che utilizza le stesse pareti e la coscienza collettiva come opera; o peggio ancora: che il gioco riguardi certa sostenibilità da parte della politica che non vede di buon auspicio azioni estetiche e culturali e costi non comprensibili agli elettori?

Nell’Isola, sull’insostenibilità dei costi e, in questo caso, delle archistar, è già stato affondato il Betile: Cappellacci e la sua banda erano riusciti a far credere alla popolazione del limitrofo e poverissimo quartiere di Sant’Elia che i soldi destinati al museo progettato dall’Hadid fossero stati sottratti all’edilizia popolare.

La necessità di continuare nell’ottica della professionalità, del rigore e della qualità della ricerca artistica contemporanea è l’unico antidoto contro chi, cavalcando un populismo carico di stereotipi e di menzogne, continua a dominare e a demolire ogni tentativo di rinascita culturale e sociale nei territori periferici. La colpa però è anche di chi opera con l’esclusiva preoccupazione di quello che arriva (e rimane) dentro il sistema dell’arte di riferimento, incurante se nell’azione artistica, che ha coinvolto un determinato territorio, siano state messe in campo azioni adeguate anche ad educare sui linguaggi ed i codici espressivi specifici dell’arte contemporanea. Alla fine queste cattive pratiche autoreferenziali finiranno per fare tabula rasa anche delle esperienze positive, spianando la strada al ritorno ed al trionfo locale di artisti, imbonitori e politici mediocri incapaci e poco interessati a creare valore culturale reale?
Pino Giampà

una sala del museo oggi, con la collezione sulle pareti (e sui tavoli), in fondola pedana per le esibizioni canore e poetiche
  





Se la provincia cerca di ucciderti allora reagisci per primo. 

10 febbraio 2014


una delle sculture in fase di lavorazione
una delle sculture in fase di lavorazione
L’ignoranza genera mostri, ad Iglesias, Sud-ovest della Sardegna, genera anche sculture.


Il Bel Paese, lo sappiamo, è tanto bello quanto pieno d’oscenità visive: a farla da padrone, fino ad ora, è stato l’abusivismo edilizio, lo stile nazional-palazzinaro e l’ingordigia ambientale delle case a schiera vista mare, il tutto condito da appassionate relazioni tra imprenditori ed amministratori comunali, a volte in odore di mafia, altre semplicemente in odore di soldi o di voti facili.

In questi contesti così esteticamente degradati e degradanti, anche l’arte ha avuto la sua brutta parte facendo da cornice ad arredamenti prodotti nella peggiore tradizione deltrashdesign, ma è nel Sulcis, in particolare adIglesias, che da qualche anno si è aperta una falla culturale dovuta ad un’invasione di opere in perfetta sintonia con il malcostume visivo (etico-estetico) tanto caro agli esempi-scempi edilizi appena citati.

La complicità e l’assoluta mancanza di gusto, e competenze, nel settore da parte di alcuni segmenti importanti della città rischiano di rendere vano ogni tentativo fatto fin ora di portare il fare arte, nella provincia più povera d’Italia, ad un livello utile alla sua rinascita economica e sociale.

Il caso che questo articolo vuole denunciare non riguarda l’amministrazione locale, sindaco e assessore alla cultura per intenderci, ma l’atteggiamento di certi personaggi ed alcune associazioni che, almeno nelle intenzioni della loro mission, dovrebbero garantire un processo di qualità della cultura. Invece queste associazioni si sono distinte negli anni, sopratutto per aver saputo costruire un vero e proprio apparato parapolitico nel centro sinistra locale, realizzando comunque operazioni culturalmente dignitose soprattutto nel campo del cinema, ma per quanto riguarda le arti figurative si rivolgono esclusivamente ad un prodotto equivalente, tradotto nel cinema, ai cinepanettoni commerciali, per non dire a certi sottoprodotti audiovisivi amatoriali.

A tutti noi capita spesso di incontrare persone preparate e competenti nel campo letterario, cinematografico e musicale, però completamente digiune d’arte contemporanea, ma qui, ad Iglesias, siamo di fronte ad un vero e proprio granchio etico-estetico, che rischia di trasformarsi in un grottesco quanto pericoloso precedente.

Sicuramente in buona fede, allettato dalle prospettive di un buon orientamento nel territorio per far rinascere il locale Liceo Artistico, ormai con due sole sezioni ridotto ai minimi termini, il preside, con la Società Operaia di Mutuo Soccorso, si è fatto promotore di un simposio (si da noi li chiamano ancora così) di scultura, dove, più o meno, sempre gli stessi artisti cercano grossolanamente di domare grandi blocchi di pietra a mo’ d’immagine appena abbozzata di un minatore o di una cernitrice, e questa deriva figurativa nazional-popolare è addirittura richiesta, nel sito di presentazione del progetto, come condizione alla partecipazione: ogni anno ne vengono prodotte circa una decina che poi la città deve accollarsi, per contratto, in modo permanente, sistemandole nei pubblici giardini. Siamo abituati a veder comparire nelle nostre città sculture e monumenti di cattivo gusto e di anacronistia qualità artistica, ma questo ritmo, e con tanta ignoranza, Iglesias rischia seriamente, nel giro di una decina d’anni, di avere il record di brutte opere (d’arte?) pubbliche in tutta Italia. L’incauto dirigente scolastico si è rivelato quindi tanto digiuno d’arte quanto dotato di un particolare talento nel farsi coinvolgere da artisti che giusto personaggi alla Diprè (dietro lauto compenso) potrebbero definire tali, con il rischio, anche di compromettere il lavoro che molti altri artisti, provenienti proprio da quel liceo artistico che lui dirige, hanno fatto proprio per evitare che nel territorio, dopo i danni della crisi, arrivassero anche quelli provocati dalle derive culturali ad essa collegate.

Lanciata la polemica, soprattutto attraverso i social network, ecco comparire a difesa dello scempio estetico le immancabili figurine, tipiche dei salottini, dei bar e dei circoli di partito, della nostra provincia: caporali che non perdono mai l’occasione per palesare tutto il loro disprezzo verso chi prova a sprovincializzare e glocalizzare il fare e analizzare arte nel territorio.

Forse alcuni sperano in questo modo di costringere gli artisti, che non ci stanno ad abbandonare la città alla mediocrità visiva, ad operare un dietro-front rispetto all’impegno verso la rinascita culturale del territorio, costringendoli, magari, anche a ripensare le loro carriere artistiche e professionali in altre città.

Resistenza-Residenza! Se si accettasse di tener conto del giudizio, dei gusti e delle provocazioni di queste persone si compirebbe l’ennesimo triste rituale delle provincia che costringe inesorabilmente i suoi artisti migliori ad un esilio forzato, ma per fortuna, almeno per ora, gli artisti che operano all’interno del Distretto Culturale Open Source proprio non ci stanno ad abbandonare il loro territorio al più degradante sottobosco artistico e culturale rappresentato dagli operatori coinvolti in questi osceni simposi, ma non sono disposti a far passare sotto una, altrove, legittima indifferenza del vivere e del lasciar vivere, ormai questo amatorialismo diffuso sta pian piano occupando tutti gli spazi e le occasioni disponibili in città.

Quando si parla di abusi e di scempi edilizi c’è sempre la speranza che qualcuno un giorno finisca in galera, ma per i crimini compiuti in nome dell’arte la cosa di solito finisce solo per condannare la comunità al basso profilo artistico e culturale prima e a rimanere nei bassifondi di quello etico, economico e sociale, poi. Ma non si sa mai che, prima o poi, qualcuno di questi impostori visivi venga condannato, ancor prima che dalla storia, anche dalla stessa comunità che hanno pensato di ingannare e sfruttare.

Proprio il Sulcis si è dimostrato, in questi ultimi anni un laboratorio d’eccellenza per la ricerca artistica: MACC e galleria Mangiabarche a Calasetta, Cherimus, GiuseppeFrau Gallery (seppure sono parte interessata, la cito anche perché progetto collettivo) e Agri-factory Barega (Distretto Culturale Open Source ) sono il risultato di questo processo che ha avuto un certo riscontro anche a livello internazionale. Quindi appare fisiologico che a questo punto, se non scatta l’accoglienza ed il riconoscimento (cosa piuttosto difficile in territori ostili come il nostro) arriva puntuale quell’attacco prodotto dalla stessa politica che ha condannato il Sulcis ad un mare di veleni, prodotti da un’industrializzazione che ha avuto come scopo principale non solo quello di riempire le pance degli azionisti, ma anche di voti per le carriere di chi ancora tiene sotto scacco e ricatto il territorio. Tenere fuori l’arte e gli artisti che fanno ricerca, significa appunto voler rinunciare alla consapevolezza del presente e alla capacità di saper pensare il futuro propria dell’arte contemporanea impegnata, soprattutto nell’arte pubblica e sociale, puntando ancora sulla mancanza di comprensione e diffusione tra la popolazione dei codici specifici. Del resto è la stessa cosa che hanno fatto le grandi dittature del secolo scorso: si traccia come degenerata l’arte contemporanea ed al posto degli artisti d’avanguardia ci si rivolge ad artisti che possono passare tranquillamente da un ritratto di Stalin ad uno di un minatore, a seconda della volontà e dell’appartenenza politica.

Del resto alcuni preoccupanti segnali iniziano a manifestarsi e sembra che neppure un Leone d’oro come Stefano Rabolli Pansera passi indenne dalla ghigliottina di questi tentativi di restaurazione. Peccato, Calasetta sembrava quasi immune, ma la politica da queste parti non ti permette nessuna distanza e soprattutto nessuna possibilità di sopravvivenza se cerchi di dimostrare sul serio vie alternative di sviluppo e d’identità.

Carbonia, la più giovane città d’Europa, non è da meno, e pensare che solo fino a due anni fa si parlava di candidarla a Capitale europea della cultura. Oggi è Cagliari, ufficialmente candidata ed il Sulcis è ancora in gioco proprio con il capoluogo, ma se fate un giro in quello che fu il Territorium Museum (c’è ancora la scritta realizzata del collettivo GFG) noterete che al posto degli artisti che l’hanno inaugurato con le proprie mostre/workshop(Trevisani, Stampone, Perrone) oggi si fanno mostre di (probabili) amici dell’Assessore alla cultura (SEL) raccattati in una galleria nuorese che stimiamo di quart’ordine, dove era appena stata per presentare, e vendere, il suo libro.

Forse sarebbe il caso che proprio certi personaggi, spesso facenti capo a partiti ed associazioni di sinistra e quindi ispirati da una tradizione progressista e anticonservatrice, si domandassero se non fosse il caso che anche l’opera d’arte fosse trattata, letta, apprezzata e considerata nei contenuti della qualità del mezzo e del messaggio; così facendo, forse non si rivolgerebbero ad opere e artisti che nel loro fare sono nettamente conservatori e nazional-popolari. Detto in parole povere: non basta che l’artista impegnato sia iscritto ad un partito o ad un’associazione simpatizzante in area politica progressista per diventarlo automaticamente lui e innalzare a tale stato anche la sua opera; anzi: molto spesso, dietro certe dichiarazioni dei nipotini di Gramsci e dei figli di Santoro, si palesano opere ed artisti che lanciano forme e messaggi esattamente contrari, più adatte a momenti storici in cui le dittature ed il populismo la facevano da padrone.

Insomma si rendano conto una volta per tutte, che non possono da una parte amare il cinema, la letteratura, la musica d’autore, condannare l’abusivismo edilizio e gli scempi ambientali e proporre dall’altra opere ed artisti che non solo sono esattamente all’opposto, ma che spesso combattono duramente la ricerca artistica contemporanea (e d’autore).

Facendo leva sulla quasi totale assenza di familiarità con i codici ed i linguaggi dell’arte contemporanea di una buona parte della popolazione, gli Sgarbi ed i Diprè hanno costruito la loro fortuna mediatica, esattamente come una certa politica ha sfruttato le stesse lacune per fare il pieno di voti e di populismo. Questa parte becera e conservatrice (ma politicamente trasversale) insiste nel far credere che la qualità dell’arte possa, al pari di qualsiasi altro prodotto, essere decisa a naso, rivolgendosi al proprio gusto personale senza chiedersi se questo fosse in realtà allenato ed alimentato da una corretta esperienza. A questo gioco, dalle nostre parti, si prestano anche insospettabili associazioni che pure dovrebbero ben conoscere gli sforzi, proprio da loro compiuti, per educare la gente al buon cinema o al buon cibo: non si riesce a capire come possano pretendere che la più complessa tra le arti sia invece abbandonata alla pura esperienza sensoriale senza nessun riscontro oggettivo o formativo, sicuri oltretutto che questo non produca, nel tempo, danni economici e sociali ben peggiori del cattivo cinema e del cattivo cibo.

Questa storia, apparentemente lontana anni di luce dalle dinamiche dei centri della cultura dell’arte contemporanea e del target a cui si rivolge questa testata, non vuole essere il segnale di una resa, quanto piuttosto una dichiarazione di guerra per non abbandonare le nostre province in mano a certi gesti irresponsabili, ma anche per evitare che prima o poi questi finiscano per costringere la ricerca artistica d’avanguardia ad arroccarsi sempre di più all’interno di nicchie sempre più in alto per essere ancora in grado di poter interagire con la comunità.

Intanto per evitare che il territorio resti scoperto agli attacchi del terrorismo kitsch e da certi criminali estetici, proprio ad Iglesias il collettivo GiuseppeFrau Gallery sta collaborando con l’amministrazione comunale per la creazione di una Scuola Civica d’Arte Contemporanea, la prima di questo genere in Italia. Hanno già dato la disponibilità a collaborare alcuni tra i giovani curatori ed artisti sardi in prima linea da anni per evitare che la Sardegna diventi dimora privilegiata degli scarti di produzione artistica e culturale spesso provenienti dal Continente. Non sarà una cosa facile e sicuramente saranno in molti a cercare di far naufragare l’idea: non dimentichiamoci che intorno a questa esperienza c’è infatti il territorio non solo più povero d’Italia, ma anche il più inquinato, depresso, politicamente compromesso e culturalmente ostile; proprio per questo un laboratorio irripetibile in cui il fare arte si scontra quotidianamente con l’arte di chi, seppur abbia toccato il fondo, preferisce continuare a scavare piuttosto che cercare di risalire.






***




l’isola che non ti aspetti è qui


Il Leone d’oro assegnato all’Angola nell’attuale edizione della Biennale di Venezia, sa un po’ di Sardegna, o meglio ancora di Sulcis, eh sì, il curatore del Padiglione africano, Stefano Rabolli Pansera(Beyond Entropy Ltd) è anche il direttore del MACC, e della galleria Mangiabarche, a Calasetta. Un riconoscimento internazionale accompagnato da una dose di spregiudicata attenzione verso realtà periferiche, ma determinate a rispondere alle sollecitazioni intelligenti di persone intelligenti con progetti intelligenti, del resto Beyond Entropy Ltd è un’agenzia non profit, che s’ispira al concetto di Energia come strumento poetico per definire nuove strategie territoriali e urbane, lavorando in aree critiche del pianeta, dalle periferie sovraffollate delle metropoli Africane alle steppe desertiche dell’Asia Centrale fino al Sulcis, appunto una delle zone più belle ed ostili, del pianeta.
Adesso, anche la Biennale di Venezia sembra confermare la centralità dei territori periferici, sempre che questi sappiano costruire strategie di accoglienza per percorsi alternativi verso il centro.
Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.




Intanto, in loco, Stefano Rabolli Pansera ci ha regalato una bellissima mostra, realizzata dagli artisti dell’ultima residenza Joanne Robertson, Nicolas Amato e Rosie Putler, dove ha messo in gioco quell’aspetto pulito e White dell’architettura recuperata, ad arte, di Mangiabarche. Sembrava quasi che fosse stata occupata da una famiglia figlia della disperazione e della crisi: il tetto (che non è stato volutamente ricostruito per permettere di vivere uno spazio aperto al cielo) era stato ricoperto da arbusti e piante secche, all’esterno dei tiranti sostenuti da dei blocchetti, sospesi, di cemento, sembravano compromettere la bianchissima linearità del muro. All’interno grandi teli, recuperati dal cantiere, apparivano grossolanamente dipinti, una vecchia borsetta da donna, raccattata chissà dove, era appesa in un’assemblage improponibile, il tutto condito da un forte vento di maestrale, quello che piega gli alberi. Pochissime persone hanno avuto la forza di presentarsi alle assolate ore 17, nell’isola un curatore dal Leone (e dal cuore) d’oro ancora non smuove l’esercito dei vernissage. Fantastica, bellissima, pazzesca che altro dire, l’ora insolita è stata scelta perché gli arbusti e le piante messe sul soffitto, che non c’è, erano stati messi dall’artista di Los Angeles (alla sua prima esperienza espositiva in assoluto) Nicolas Amato per proiettare sui muri incredibili decorazioni; e va bene che la sua professione, prima di questa esperienza che l’ha convinto ad approdare a quella dell’arte, è stata quella di tecnico delle luci per il cinema di Hollywood, ma la semplicità del gesto ha lasciato sul campo, anzi sui muri, tutto il marchingegno per sostenere l’effetto, un po’ come nel cinema, dove dietro l’immagine c’è tutto l’apparato di ripresa. Ma è proprio questo che ne fa una straordinaria macchina per la messa in scena dell’opera, infatti i tiranti disegnano delle forme astratte sui muri che ricordano la vocazione astrattista del MACC. La pittura, anzi quelle pitture, che abbiamo poc’anzi definito grossolane, in realtà utilizzando la forza cromatica del materiale, il colore riempie solo una parte della superficie, riescono a superare quella divisione tra supporto e finzione, diventano dei quadri di una potenza straordinaria. La mostra ci sorprende proprio per quel suo svelarsi poco a poco, la sensazione all’uscita è diversa da quella dell’entrata, questo si che è arricchirsi di un’esperienza.
Fino a due anni fa, per parlare in questi termini dovevamo, in Sardegna, riferirci esclusivamente all’esperienza del Man di Nuoro. Noi è dall’estate del 2009 che scriviamo, proprio su questa rivista, che l’Isola non sarebbe più stata solo Man, che una nuova generazione e nuove pratiche dell’arte si stavano muovendo nel profondo Sulcis. Sulcis che con la mostra del progetto La Bibliotecha fantastica,dell’Associazione Cherimus è di scena proprio al museo barbaricino.
A cura di Emiliana Sabiu, a mostra parte da un progetto di valorizzazione delle biblioteche del Sulcis che ha coinvolto 12 artisti in un’inedito incontro con i ragazzi del posto e “con le loro infinite storie”. Nella mostra sono proiettati quattro cortometraggi girati dai ragazzi durante il progetto, anticipati dai trailer realizzati da Andrea Canepari e Guido Bosticco e dalle locandine in perfetto stile coming soon diVincenzo Cammarata e Guido Bosticco. Gli altri interventi invadono lo spazio che, da biblioteca fantastica, diventa esperienza visiva fantastica, allontanando qualsiasi ricordo dell’aver agito in un territorio messo in ginocchio da una crisi senza precedenti, incarnando l’energia positiva dei bambini delle scuole che hanno incontrato, quasi a restituirci la speranza. Non si sfugge così all’aspetto giocoso, quasi spensierato, allegro, dove la ricerca artistica diventa disponibile anche a divertire. Simone Berti realizza una sorta di piccola vasca bibliofila dove fa galleggiare le marionette e gli oggetti realizzati dai ragazzi; Michele Gabriele ci restituisce il ricordo del workshop flessibile nel vero senso della parola; Jonathan Vivacqua fa rotolare una morbida palla sonora; Matteo Rubbi realizza delle insegne luminose, già “vissute” ed esposte alle intemperie, dedicate ai paesini che hanno partecipato al progetto, Giba, Masainas, Perdaxius, Piscinas, Santadi e Villaperuccio; Marcos Lora Read ha trasformato dei libri abbandonati e obsoleti in nuovi oggetti;Derek Maria Francesco Di Fabio attraverso delle sculture sospese trasformando i disegni dei ragazzi;Daniella Andrea Isamit Morales ha realizzato un video che racconta il backstage e partendo da frasi raccolte dai ragazzi crea una lingua inesistente conciliando il Sardo-Campidanese con lo Spagnolo-Venezuelano (con il supporto di Ivo Murgia); Stefano Faravelli ha presenta il suo carnet di viaggio realizzato durante la permanenza nel Sulcis; Andrea Bocconi e Guido Bosticco, hanno riassunto e trasfigurano le storie di tutti i cortometraggi in un unico testo inedito, infine Carlo Spiga ha raccolto sedie nei i bar della città per consentire allo spazio di diventare una piccola sala cinematografica.
Mentre il LEM, a Sassari, continua imperterrito sulla strada che spazia dalla pittura (buona) all’accrochagee di artisti (buoni) di tutti i tipi, raccattati, troppo spesso, non da un’attenta strategia curatoriale, ma in occasioni di incontri in altri progetti, il solito ottimo piccolo grande spazio della Wilson project riesce ancora una volta a rianimare la città, un tempo capitale indiscussa dell’arte isolana (ed isolata) conCristian Bugatti (Bugo), che ha sistematicamente chiuso fuori il pubblico esponendo l’opera, due ritratti, sull’esterno dello spazio.
Se a Sassari è stata invasa una via da parte del pubblico “messo alla porta” da parte di Bugatti, a pochi km di distanza, a Sindia, l’arte ha invaso un ovile, ed un nuraghe. Artefice dell’invasione è stato il giovane artista Nicola Mette, che con l’azione Pecore anarchiche style, ha trasportato tutto lo staff dell’Agrifest –Agrifactory del Sulcis (Baccanale, Neuroni attivi e GiuseppeFrau Gallery), realizzando una performance in cui ha tosato le pecore come dei leoni. Appena arrivati nel suo paese, l’artista è di Sindia, fermandoci in un bar con i tavolini sepolti da una miriade di birre Ichnusa, sentivamo la gente già parlare di questa festa “de sos frozzos” (froci), credendo, e soprattutto facendo credere alla popolazione, com’è nello stile di certa sottocultura dell’isola, che Nicola Mette avesse messo in discussione la stessa dignità etero degli ovini, e che il pubblico dell’arte contemporanea accorso all’evento, sarebbe stato una sorta di gay pride con intenzioni orgiastiche con derive rave. Nell’ovile, accanto ad un nuraghe, i carabinieri, accorsi per porre eventualmente fine a tale scandalo, hanno invece trovato pecore, pastori, tenores (neoneli), gastronomi (Giovanni Fancello), famiglie, artisti e amici degli artisti, gruppi musicali (BreakinDown + GrandMother Safari + Perry Frank + Redrum), maschere tipiche (Sos Corriolos), turisti e naturalmente, a parte l’Assessore alla Cultura di Sindia, che beveva del buon vino con il Sindaco di Neoneli, quasi nessuno degli abitanti del paese. Paese che si è ancora dimostrato ostile nei confronti del suo artista: ricordiamo ancora con sbigottimento la difesa del sindaco (poi destituito e commissariato) in merito alla scritta “Nicola, gay, sei la vergogna del paese, vattene!”, apparsa in occasione della performance che vide protagonisti maschere e gruppi storici della Sardegna e il loro reciproco scambio dei vestiti, emblematico agire contro la violenza sulle donne. Va fatta a questo punto un’osservazione che tenti un’analisi: l’ostilità sopra citata, in realtà è (stata) di pochi, ma i tanti hanno pesato ugualmente: sono quelli che hanno avuto paura di partecipare all’azione nel timore di essere presi in giro e giudicati troppo concilianti con i gay… Anche questa è Sardegna, quella Sardegna che proprio in questi giorni ha organizzato un vero e affollatissimo Gay Pride, ma che è vittima di una cultura sessista e maschilista, dove anche la donna è sottomessa ed a volte compromessa, in questa idiozia collettiva: altro che Dea Madre, altro che società matriarcale! Eppure, i pastori che hanno accolto l’evento sono proprio di Sindia, veri, duri e puri, ospitali, disponibili: senza aver ricevuto nessun compenso, hanno aperto il loro ovile, il loro nuraghe, le loro pecore, all’arte ed alla festa. Anche questa, anzi è questa la vera Sardegna, quella che non ti aspetti, capace di contraddirti continuamente, tradizionale e capace di cogliere l’innovazione.
Infatti L’Agri-Factory è una comunità 3.0 ad alta energia creativa, nata per permettere uno scambio di saperi tra arte contemporanea, ricerca musicale, bioarchitettura, tecnologie open source, agricoltura (permacultura, biodinamica, sinergica, ecc.), economia della decrescita e sviluppo sostenibile. Nicola mette (verbo) la pecora all’interno di un processo di riabilitazione, proponendola quasi come una divinità, ripulendola, con il suo tosarla in maniera estetica, dall’infamia della viltà, ci vuole tutto il coraggio e la forza di un gregge per risollevare le sorti di un economia messa in ginocchio da una crisi inesorabile, di cui i pastori, per primi hanno incarnato la lotta. Non possiamo pensare la pecora senza l’uomo, e se qualcuno volesse affrontare la pecora, deve affrontare il pastore. Pastore che è l’immagine stessa della forza, in quell’ovile, pastore e pecora sembravano un tutt’uno con il nuraghe. Nuraghe (Nela) ancora con la volta intatta, dove uno dei tenores di Neoneli ha potuto dire, dopo aver cantato al suo interno, di non aver mai sentito la sua voce così perfetta, tutto il canto a tenores deve essere nato là dentro, ha detto. Parola ditenores. Appunto. Un’esperienza, questa, maturata dalla necessità di dialogare con le forze produttive, e sostenibili, dei territori, grazie alla nascita del Distretto Culturale Open Source appena auto-attivato nel Sulcis, ad opera della fondazione Macc, Mangiabarche di Calasetta, di Cherimus, della GiuseppeFrau Gallery e dell’Agri- Factory (Baccanale, Neuroni attivi, GFG).
Auto-attivato, in quanto non è un atto concordato con la politica, con protocolli d’intesa e tanto di convegno di Pierluigi Sacco, ma una constatazione che quello che si sarebbe dovuto realizzare nel sogno politico si è invece realizzato spontaneamente in quello artistico, con la mission di portare la cultura come matrice dei nuovi processi dell’innovazione, dell’economia e della sostenibilità. Intanto speriamo che il territorio non si chiuda, come ha fatto la politica, alla ricerca ed alla sperimentazione culturale per la produzione di progetti ed azioni utili al territorio stesso, permettendo a tutta la comunità di poter sfruttare proficuamente la capacità da parte di un Distretto Open Source di pensare il futuro.
Scendendo nel Sud dell’isola, a Cagliari continua il nostro sforzo di trovare qualche segnale nella miriade di, dispersivi, spazi aperti in città, l’ultimo arrivato è il Temporary Storing, un luogo nella Fondazione Batoli-Felter, ma che niente fa, ed aggiunge, per uscire da una caotica routine, indegna di una capitale del Mediterraneo. Eppure, le forze ed i talenti, e forse anche il pubblico, ci sarebbero, ma la claustrofobia di un certo modo di fare strategie curatoriali da parte di personaggi inadeguati, improvvisati, o peggio superati, è una malattia incurabile. Per fortuna, Roberta Vanali, Carla Deplano ed Efisio Carbone si sono inventati un premio Babel che non solo ha riavviato gli animi e le speranze, ma ha anche fatto rete. Al di là delle singole qualità degli artisti, che pur ci sono, uno per tutti Riccardo Muroni, l’idea che si avviino dei processi e delle occasioni in cui gli artisti possano confrontarsi e mettersi in gioco, sfidando il giudizio degli addetti ai lavori, è sicuramente una delle strade possibili per uscire da una certa autoreferenzialità, che non sempre porta ad un’autoproduzione alternativa di qualità, ma che, soprattutto in un’Isola, porta all’auto-emarginazione. Troppi talenti sono andati persi per sempre nel tentativo di celebrarsi e affermarsi inveendo contro un sistema dell’arte che in Sardegna non c’è. O forse sì che c’è, o meglio inizia ad esserc:, un sistema nuragico e contemporaneo, proprio come l’abortito progetto del Bétile della Zaha Hadid…, chissà. Venite a trovarci, e non solo d’estate.

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sardegna isola felice? e perché dovrebbe esserlo!

09 apr 2013

Bellas Mariposas è un film di Salvatore Mereu, ispirato all’omonimo romanzo di Sergio Atzeni: Cate ha undici anni, tanti fratelli e un padre pezzemmerda (stronzo), vive alla periferia di Cagliari (Sant’Elia), ma vorrebbe fuggire, sogna di fare la cantante, non vuole finire come sua sorella Mandarina, rimasta incinta a tredici anni, o come Samantha, la ragazza oggetto del quartiere. Solo Gigi, un vicino di casa, merita il suo amore. Un film super-realista, dove i gesti ed i linguaggi della periferia, culturalmente e socialmente, estrema caratterizzano un mondo che forse rappresenta la città di Cagliari più di qualsiasi altra possibilità ed immaginazione politicamente e/o grammaticalmente corretta.
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Sant’Elia è un quartiere con una vista bellissima, dove il degrado sociale è spinto ai livelli di Scampia a Napoli e di ZEN a Palermo, ma con pratiche di autogestione della disperazione, che hanno trasformato, ad esempio, il mercato della droga in un colorato mercatino (sempre della droga) e dove l’emarginazione si può trasformare, quasi per miracolo, in punti utili per attirare progetti (rigorosamente superfinanziati) di rinascita e di riqualificazione. Sant’Elia ha due facce: l’antico borgo, un tempo estremamente pericoloso quanto la povertà che lo abitava ma ora solo estremamente bello, ed un superborgo moderno fatto di alti palazzi grigi, dove sono stati deportati gli abitanti in difficoltà (non solo finanziarie) del resto della città.  Mentre lo stadio di calcio si è perso anche nelle incertezze e contraddizioni del giovane sindaco, il progetto del supermuseo archeologico-contemporaneo progettato da Zaha Hadid (Betile), c’era una volta ed ora non c’è più, è caduto vittima del retaggio radical chic, reo di aver dimenticato l’importanza del comunicare i progetti alla gente comune: del resto, gli ultimi architetti moderni avevano rifilato loro proprio quelle case “pezzemerda”, quindi per quale motivo si sarebbero dovuti fidare ancora della archistar? Ma sembra che finalmente qualcuno abbia inteso, almeno nelle intenzioni  nutriamo seri dubbi nelle finalità), l’importanza di un’arte pubblica relazionale e non autoreferenziale. Qualcuno ma non tutti.
L’ha capito Marinella Senatore con il progetto d’arte partecipativa Piccolo Caos – Melodramma in 3 atti, che ha coinvolto la comunità del quartiere di Sant’Elia, non l’hanno capito quelli di Berlin-Island/ Empirical survey on a Heritage, che sempre al Lazzaretto, sempre di Sant’Elia, hanno presentato una sorta di sagra del “siamo contenti di essere stati a Berlino” raccontando (anzi non raccontando affatto) un’isola che non c’è, privandola di qualsiasi riferimento alle emergenze sociali e culturali, dimostrando solo che anche un artista sardo è perfettamente in grado di parlare la lingua del villaggio autoreferenziale dei piccoli soggiorni dell’arte… Sono finalmente riusciti a traghettare l’arte dai salotti ai soggiorni? Sarà un gesto scaramantico anche utile di questi tempi, ma trasformare l’arte sempre in una festa, dove l’ironia coglie anche note archetipali, ma alla fine finiscono per risuonare sempre in azioni compiute con il mignolo alzato. Ma perché dobbiamo far finta che delle emerite trovate debbano farci emozionare invece che sorridere? Forse è anche il motivo per cui chi scrive non è andato personalmente a vederla, costringendo un piccolo gruppo di volontari (studenti, precari, disoccupati ed incazzati del Sulcis ) ad assistere al suo posto, e farsi raccontare quello che anche a loro è sembrata soprattutto una festa (vernissage?) dove se non incontri qualche amico, ti conviene precipitarti a comprare qualcosa da fumare per dare un senso a quella gita.
Niente da dire sulle qualità dei singoli artisti partecipanti, o forse sì: alcuni di loro sembrano aver maturato la possibilità di essere finalmente in grado di viaggiare e confrontarsi con il sistema dell’arte, ma non con loro stessi, forse è un problema generazionale, forse è un problema nostro o forse ancora è colpa dell’erba, che riesce ancora ad ampliarti i sensi più che certe intenzioni artistiche. Forse è colpa della crisi, troppa dalle nostre parti per essere tolleranti con certe espressioni anni zero zero. Del resto ormai siamo in pieni anni 10. di fronte ad una rivoluzione culturale, che ha sostituito quella dei voli low cost (Berlin-Island-Berlin): la rete, la democrazia partecipata, l’ubiquità virtuale.
Per fortuna, altri artisti, almeno quelli con la tripla A, non subiscono passivamente i limiti della propria generazione, ma si trasformano in Generazione. È il caso proprio della Senatore, artista e film maker, trentacinquenne e salernitana e anche lei proveniente da Berlino, ma con una valigia non riempita da souvenir radical kitch, ma con ben 40 mila persone che, dal 2003, hanno preso parte ai suoi progetti e con cui continua, con circa tre quarti di queste, ad avere contatti. Capito mi avete? 40000, a cui se ne aggiungeranno altri mille reclutati attraverso un vero e proprio casting dal quartiere cagliaritano: anche se chiama Piccolo Caos, di piccolo c’è ben poco. Questo grande progetto fa parte di Connecting Culture (Mondi Possibili – Re-Inventing the city) che mira a reinventare la città trasformandola in un laboratorio a cielo aperto dove confluiranno diversi linguaggi espressivi, con una parola chiave, scambio e su due aggettivi: inclusivo e paritario. Scambio di esperienze, di saperi, di racconti, raccogliendo un quartiere e, assieme alle persone, realizzare un film-melodramma, dove ciascuno può negoziare con l’artista ciò che sa e può fare. Diverse fasi di lavoro, tutto sempre sotto forma di scambio: io ti insegno a scrivere una sceneggiatura, a usare le luci, tu mi insegni a costruire una quinta, un costume, ma anche fare i malloreddus o meglio ancora la pasta con i ricci. Quest’ultima rappresenta una vera è propria pratica di sopravvivenza che ancora oggi coinvolge molti degli abitanti di Sant’Elia. Ma ora che la raccolta è duramente regolamentata e la vendita senza autorizzazione duramente repressa, proprio in certi quartieri ghettizzati si potranno ancora mangiare i migliori spaghetti ai ricci, perché se il riccio non è abusivo, non sarà mai abbastanza verace! Grazie Marinella!
P.S. Nel mentre in quel d’Oristano si è consumata l’ennesima mostra senza alcuna utilità se non quella di continuare a mentire sapendo di mentire, a Sassari e zone limitrofe, a parte una rimessa in scena di un progetto estivo, tutto tace, e a Nuoro aleggia il sospetto che siano stati solo i grandi budget a far girare le grandi mostre del MAN; a Calasetta, invece, nella Fondazione MACC, c’è un grande via vai d’artisti:Massimiliano Marraffa si è fatto invitare a pranzo dagli abitanti promettendo di lavare i piatti e di restituire il favore immortalandoli in foto da esporre poi nel museo, Davide Battistin ha portatonientepocodimenoche una barca nello spazio all’aperto di Mangiabarche. Proprio questa galleria che vuole essere un faro per l’arte contemporanea in Sardegna ed in tutto il Mediterraneo, partecipa con uno stand alla MIART ma, udite bene, con un’artista canadese, di cui non facciamo il nome, perché dimultinazionali straniere che vengono a finire di dissanguare un territorio come il nostro e di certo provincialismo voyeur ci siamo abbondantemente rotti le scatole.
Ci sentiamo di dire che comunque, grazie a certa intuizione curatoriale, per fortuna, a Calasetta c’è un’isola felice a due passi dall’isola della disperazione. Attenzione però: il sorriso di plastica della grande economia sta diventando un ghigno, la rete ha dimostrato che non è solo virtuale e Ryanair inizia ad essere antipatica a troppi viaggiatori con bagaglio in eccedenza. Aproffittiamo comunque di questo spazio per segnalarvi la performance Martiryum, sempre nella Galleria a Cielo Aperto di Mangiabarche Calasetta per la domenica del 5 maggio 2013, alle ore 9, dove l’artista Federico Cozzucoli, vestiti gli usuali abiti che sacralizzano la sua arte, una stola dorata e un camice bianco, condurrà, come il Buon Pastore di religiose memorie, un gregge di pecore. Nel suo cammino sarà accompagnato dal suonatore di launeddasMichele Deiana, che dire dopo le cene, i fuochi d’artificio, le barche, ora anche le pecore felici, per farci ricordare che l’arte, quando non riesce a farci cambiare il mondo (o la parete di casa) serve anche a fare una buona lana e un buon latte.

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99 ideas. call for sulcis: ed ora anche l’arte e la cultura dimostrino…


Di norma, i monitoraggi per individuare le misure per la programmazione di certi progetti passavano quasi esclusivamente per le segreterie dei partiti e le associazioni di categoria che, una volta dichiarati accordi, interessi e cordate, le giravano al loro esercito di super-consulenti di riferimento ai quali spettava il duro lavoro di trovare progetti e soluzioni che rispecchiassero e rispettassero gli accordi, gli interessi e le cordate, per poi reindirizzare il resto al proprio Dipartimento Universitario e/o associazione d’appartenenza, magari creata ad hoc. Ma, guardando al nuovo ciclo di programmazione europea, il Ministro della Coesione Sociale, Fabrizio Barca, sembra scardinare questa tradizione consolidata e lanciare una sfida, affidando ad una gara libera e partecipata il metodo per individuare e raccogliere idee di sviluppo territoriale.
Un prototipo che parte dalle aree archeologiche di Reggio Calabria e Pompei ma che in questa sede si occupa anche del rilancio territoriale del Sulcis.
La realizzazione è curata da Invitalia, Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa s.p.a., ma definita da un’idea per lo sviluppo sostenibile del territorio, animato dalla volontà di produrre crescita e sviluppo per l’area del Sulcis, offrendo nuove prospettive socio-economiche al territorio, nasce quindi questo concorso internazionale di idee.
Il Concorso avrà l’obiettivo di stimolare il mercato locale, nazionale e internazionale delle idee per valorizzare il luogo-Sulcis Iglesiente e di raccogliere idee per lo sviluppo utili alla costruzione del Progetto Strategico per il Sulcis, a cui sono state assegnate risorse finanziarie nazionali e regionali. Il Concorso internazionale di idee titolato Un’idea per lo sviluppo sostenibile del Sulcis sarà aperto ai cittadini italiani e stranieri maggiorenni, alle imprese ed organizzazioni anche non profit (e.g., società di persone, società di capitali, società cooperative, società consortili, imprese sociali, associazioni, comitati, fondazioni, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, Onlus, Università) nazionali o estere, avrà una durata di 60 giorni. I partecipanti al Concorso potranno presentare le proprie idee online, caricandole sul sito a decorrere dalle ore 12:00 del giorno di pubblicazione dell’avviso del Concorso (entro 30 giorni dalla data di pubblicazione della preliminary call http://www.99ideas.it/site/ideas/home/idee/per-il-sulcis.html) sino alle ore 23.59 del giorno che sarà indicato nell’avviso medesimo quale termine ultimo di presentazione delle idee
Le idee dovranno essere in linea con la progettualità locale e dovranno essere orientate a recuperare, valorizzare ed integrare le potenzialità, le abilità, le tradizioni del territorio, in una vision strategica di sviluppo sostenibile.
Per quanto riguarda il Sulcis, naturalmente non sono messi a bando di idee tutti gli assi, che sono stati concordati dal protocollo del 12 Novembre (http://www.coesioneterritoriale.gov.it/wp-content/uploads/2012/11/SULCIS-Protocollo-13-novembre-2012-finale.pdf) ma le residue risorse programmaticamente deliberate dal CIPE (Delibera 93/2012) funzionali alla realizzazione del Progetto strategico Sulcis. Quindi le risorse assegnate alla Call for Proposal vanno da un minimo di 55,700 €mln ad un massimo di 89,700 €mln, comunque non poca cosa, anche rispetto agli oltre 350 €mln stanziati per infrastrutture, bonifiche e interventi a sostegno delle filiere produttive (alluminio e carbone), nella speranza che questi ultimi siano abbastanza per saziare voglie da cabina di regia di noti e famelici sindacalisti e politici locali, e che quindi lascino allo sviluppo reale, e realmente sostenibile, la porzione messa a concorso.
Il messaggio è piuttosto chiaro: il Sulcis è la provincia più povera, inquinata e depressa d’Italia, quindi qui nessuno può più permettersi di giocare al finanziamento mio-mio al quale le associazioni no-profit spesso prestano il fianco con progetti autoreferenziali, utili solo al proprio bilancio e non a quello della causa per cui ricevono il finanziamento.
La nostra speranza è che il concorso abbia tutta l’attenzione e l’interesse che merita, sia a livello locale che nelle migliori (solo le migliori) energie creative ed imprenditoriali internazionali. Coraggio, il campo è libero…o, per lo meno, il lupo non si vede ancora.


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artist-in-residence exhibition. fondazione macc calasetta

04 feb 2013

Mentre nel resto del territorio prende vita la protesta dei lavoratori invisibili, i somministrati, quelli lasciati senza tutele e ammortizzatori sociali dalle ditte d’appalto, dalle multinazionali, dai sindacati, abbandonati persino dai propri colleghi di lavoro (nel caso della vertenza Rockwool), ebbene: nel profondo Sulcis, aCalasetta, nell’isola dell’isola, tutto sembra così lontano e l’arte pare rioccuparsi dell’arte, non senza manifestato impegno verso il territorio e la popolazione, che qui, almeno da quello che vien fuori dalla mostra, sembra essere più felice.
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Nei comunicati stampa, oltre all’immancabile trasformazione della Pelanda in Macro Roma nel curriculum dell’artista sardo (nell’attivazione, cioè, di una confusione facile da fare ma non sempre ingenua), anche una, a noi piacevole, affermazione:
“Gli artisti sono stati chiamati a creare delle opere che si estendono oltre i confini del museo per raggiungere la comunità locale e formare con essa una nuova modalità di mutuo scambio”.
Fantastico, vero, anzi verissimo, infatti gli abitanti potevano entrare e vedere le opere e gli autori in open studio durante tutti i due mesi trascorsi all’interno del Museo d’Arte Contemporanea di Calasetta (MACC); sappiamo inoltre che anche gli artisti hanno fatto a loro volta visita alla città e alla popolazione, sono andati anche ad una partita di basket, quindi abbiamo la prova che hanno realmente vissuto per due mesi a Calasetta e che gli abitanti lo abbiano constatato di persona, con libero accesso ai processi mentali dell’opera, dell’artista, del Carignano e del Cascà (cous cous…). Niente di nuovo sul pretesto e sul format, se non fosse che questa mostra è il risultato di una complicata relazione (e correlazione) di eventi, finanziamenti, speranze e necessità, dove cambia la percezione a seconda del sistema in cui si opera e del ruolo che si occupa.
Il tutto arriva grazie al finanziamento della Conservatoria delle Coste ed al progetto di Beyond Entropy, per cui il MACC è stato rivoluzionato, dotato di un direttore artistico e gestito (come prima, del resto) da una fondazione.
Anche se l’Agenzia, regionale ha la finalità di salvaguardare, tutelare e valorizzare gli ecosistemi costieri e la gestione integrata delle aree costiere di particolare rilevanza paesaggistica ed ambientale, grazie al suo direttore, Alessio Satta, è stato possibile indirizzare un progetto di bonifiche verso l’arte e l’architettura contemporanea, recuperando l’area costiera di Mangiabarche e, su suggerimento di Beyond Entropy Ltd, destinando un edificio – per il quale non è stata volutamente pensata alcuna copertura- a galleria a cielo aperto. La struttura originale, costruita durante la Seconda Guerra Mondiale come batteria antinave e antiaerea, al termine del conflitto è stata convertita in ristorante per poi essere abbandonata dopo la chiusura dell’attività nel 2001 e finalmente essere trasferita alla Conservatoria delle coste nel 2010, per diventare area di conservazione costiera.
Della natura di certe situazioni ben conosciamo le procedure e ben immaginiamo gli sviluppi (e le speculazioni), ma, del resto, da queste parti sia la popolazione che la classe politica hanno bisogno di rassicurazioni e l’arte dei comunicati stampa, che rilanciano la pagina del progetto dove si enunciano i massimi obiettivi, in questo caso è impeccabile. In parole povere: se sono in grado di reggere al tempo e nel tempo, allora tutto questo sarà veramente utile ad un reale sviluppo del territorio, se al contrario dovesse spegnersi nei tempi della durata del progetto, avrà creato un ennesimo vuoto che si riempirà solo con altra diffidenza ed altra indifferenza verso l’arte e gli operatori dell’arte contemporanea. Ma noi siamo ottimisti ed in guardia verso la salvaguardia… e non solo delle coste.
Quindi, dopo due mesi trascorsi al Museo d’Arte Contemporanea di Calasetta, Simon Mathers, Damian Griffiths e Marco Lampis hanno realizzato in site specific, trasformando prima il museo in un laboratorio per la sperimentazione e restituendolo poi come mostra tradizionale, per la cura di Karina Joseph, visitabile (la mostra) fino al 17 marzo. Nella prima sala incontriamo quella che sembra una collettiva di diversi artisti, che invece si rivela l’opera del londinese Damian Griffiths (1979): durante la residenza ha raccolto ben 13.000 immagini fotografiche, per utilizzarne solo alcune per la mostra, oltre a rompere lo schema artista V/s fotografo V/s pittore con dei cartoni di pizza con relative sue impronte e, per chiudere in banalità, a dipingere il battiscopa color oro, mandando in frantumi tutta la forza e la capacità di coinvolgimento che era riuscito a creare in open-studio-visit. Di segno e qualità opposta è la soluzione operata da Simon Mathers (1984), in cui il progetto, da studio tradizionale, diventa mostra tradizionale ma elegante, sobria, intrigante, e non certo perché in alcuni lavori ha utilizzato del cartone ondulato proveniente addirittura da un supermercato locale. Una soluzione neo-poverista in chiave neo-astratta, anche quando sembra essere neo-demenziale, come nel caso dei due fogli A4, attaccati alla parete con dello scotch giallo, con su scritte le istruzioni per lavarsi le mani, anche in questo caso lette dall’artista addirittura in un ristorante locale. In ogni caso, egli riesce a risollevarsi grazie ad un’accurata soluzione formale (sempre elegante, sobria, intrigante e…pulita).
Marco Lampis (1979) sembra perseguitarci per onnipresenza nelle nostre recensioni, ma è o non sarà un caso che è forse l’artista sardo più rappresentativo realmente residente ed operante nell’isola? In questo caso, addirittura palesa una reale interazione con il territorio, sicuramente meglio della raccolta del cartone nel supermercato locale, in quanto lui è sicuramente del territorio, anche nei lineamenti e nell’aspetto fortemente nuragico: forse siamo di fronte ad un erede dei mitici Shardana, anche se in realtà lui è di Cagliari, anche se in realtà lui non aveva alternative che essere il migliore, di dare il massimo, di concentrarsi sul lavoro e sull’entusiasmo di essere stato scelto lui, prima degli altri. E Lampis non ha tradito le aspettative, ricordandosi addirittura del fatto che all’origine di tutto c’era un progetto di architettura e di percezione, di un pavimento che guarda il cielo. E lui si è messo ad ascoltare, in silenzio. C’era una volta la cera, quella che sta anche nell’orecchio: i lavori infatti fanno riferimento alla chiocciola che si trova nell’orecchio, la coclea, un organo fondamentale dell’udito, e Lampis riesce anche a trasformare un lampadario in una conchiglia dove ascoltare l’arte. Così una collezione di oggetti trasformati dalla cera si comportano da veri professionisti dell’esposizione museale, potrebbero tranquillamente esistere in perfetto allestimento in qualsiasi museo, sia esso scientifico, archeologico, antropologico o psichiatrico. Del resto, Lampis aveva ben misurato lo spazio con la performance How to Tune a Room, che aveva aperto l’esperienza della residenza, in cui una sedia era stata trascinata sul pavimento secondo una traiettoria circolare, realizzando un perfetto e poetico rilievo sonoro dell’interno del museo. Ogni oggetto aspira e respira alla ricerca del suono e, incredibile ma vero, anche in questa ricerca puramente concettuale, è riuscito a lasciare l’oggetto in una forma perfetta, così perfetta che neppure uno scultore riuscirebbe in tal artistica impresa.
P.S. In questa recensione abbiamo sorvolato sulla dichiarazione estiva di Stefano Rabolli Pansera, direttore artistico del museo e anima di Beyond Entropy:
«Chiamare artisti a lavorare in un contesto marginale, non abituato ai linguaggi contemporanei, che ancora vede il museo come un semplice luogo di esposizione, dove persino reperire certi materiali può rappresentare un problema, significa aprire nuovi campi di sperimentazione, cercare nuove forme di comunicazione in una condizione che trae stimolo dalle difficoltà».
A parte Diego Perrone, Christian Frosi e Dacia Manto, che insieme ad altri artisti hanno lavorato ed esposto all’interno della passata gestione del MACC, vorremmo fare giusto un piccolo riassunto degli artisti e curatori (limitandoci a quelli non sardi) passati nel territorio negli ultimi tre anni, naturalmente a sua insaputa: Barbara Martusciello, Roberto Cascone, Giallo (Gianluca) Concialdi, Zarina Bhimji, Marco Colombaioni, Andrea Fogli, Isa Griese, Jorge Orta, Matteo Rubbi, Giuseppe Stampone, Santo Tolone, Bartolomeo Pietromarchi, Gum Studio, Jannis Kounellis, Alberto Garutti, Mario Cristiani,Yassine Balbzioui, Andrè Jenö Raatzsch, Daniella Andrea Isamit Morales, Simon Njami, Michele Gabriele, Giovanni Giaretta, James Putman, Alfrdo Jaar, Luca Trevisani, e tanti altri ancora… ma non importa: quest’isola è ancora tutta, tutta, tutta da scoprire. Per tanti…

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sardegna oggi, tra omologazione, sperimentazione e tv-spazzatura

11 gen 2013



L’ingresso della galleria Villamarina “murata” dai lavoratori ex Rockwool ad Iglesias
L’ingresso della galleria Villamarina “murata” dai lavoratori ex Rockwool ad Iglesias
A quasi due anni dalle performance realizzate con la galleria d’arte – e altro ancora - GFG di Normann, i lavoratori ex Rockwool di Iglesiassembrano aver trovato – assistita e perpetua – collocazione all’interno di una società impegnata nelle bonifiche ambientali: la Ati Infras; questo, nonostante il loro ultimo, disperato, tentativo di entrare in extremis in duecarrozzoni pubblici. Da tempo, purtroppo, le bonifiche erano diventate, per tanti di questi lavoratori in lotta, solo un pretesto; ciò è dimostrato dal fatto che la maggior parte di loro (42 su 54) chiedeva di entrare nell’ultima miniera ancora attiva nel Sulcis: la Carbosulcis, una vera bomba ecologica, clientelare e finanziaria pronta ad esplodere nel futuro del territorio più povero d’Italia. Alla notizia del cambio di rotta della Regione (che ha stanziato ben venticinque milioni di euro, tre all’anno, per assumere i lavoratori nelle bonifiche), per garantire l’ingresso almeno ai restanti 12 lavoratori nell’altra società pubblica, l’Igea, tre di loro si sono murati all’ingresso della galleria Vilamarina, recitando uno straziante copione degno delle peggiori trasmissioni TV-spazzatura.
La contraddizione visiva era palese: intanto perché quella non era ancora la miniera, ma solo l’ingresso della galleria sul piazzale, poi perché riprendendo spesso solo una parte del muro, si faceva credere che i cassaintegrati fossero davvero completamente murati vivi in miniera, mentre in realtà esso lasciava oltre un metro d’aria e di sole sopra le loro teste, in una situazione sicuramente drammatica e dura   ma differente da quanto palesato mediaticamente. Proprio questa ennesima discordanza tra esperienza reale e racconto mediatico, ma anche tra ideali di partenza e il concreto agire finale dei lavoratori ha mandato su tutte le furie la GFG, che vedeva trasformare una vicenda che aveva condiviso in una recita. Anche questa presa di posizione, fuori dal coro, ha attirato sugli artisti della galleria o in collaborazione con essa gli strali di una gran parte della collettività sarda e istituzionale e cucire intorno allo spazio sperimentale una sorta di nastro isolante è sembrato a molti una buona soluzione per imporgli il silenzio.
Ciò che è peggio, è che, sempre nell’isola, anche alcuni curatori cercano disperatamente di cancellare chi è libero, fuori – anche volutamente – dalla cerchia amicale e clientelare, bannandolo sistematicamente dai propri profili sociali e virtuali e raccontando una Sardegna altra, fatta di buoni e bravi artisti, sempre simpatici ad oltranza, capaci di attraversare il Tirreno ed approdare in una qualsiasi posizione, rivenduta poi nell’Isola come riconoscimento nazionale quando non addirittura internazionale. Uno dei casi più eclatanti è la consacrazione in patria di mostre parziali in quel di Berlino o di altrettanto partecipazioni a fiere secondarie, raccontate a piene pagine dai giornali locali come eroici e storici sbarchi dell’arte sarda in territorio “anzenu” (parola che in lingua sarda che significa altrui), senza omettere le standing ovation sui profili facebook degli amici e degli amici degli amici. Naturalmente alcune di queste posizioni sono veritiere, come nel caso dell’ottima Silvia Argiolas, o di Cristian Chironi; meritevoli anche quelle di artisti come Silvia Idili, pur se legata ad esperienze con galleristi dal glorioso passato ma che ormai sono fuori da ogni possibilità di raccogliere nuove energie significative. Sicuramente, se dovessimo dare un premio alla diafasia pura, questo spetterebbe (dopo il caso del muro dei lavoratori Rockwool, s’intende) alla mostra Lontani da dove, in una Pelanda spacciata nell’isola come MACRO Roma; l’esposizione, nonostante la presenza di alcuni (solo alcuni) artisti validi a rappresentare qualcosa che si muove in Sardegna, ha oltretutto consegnato al suo curatore un  ruolo che sarebbe stato più consono affidare a qualcun altro realmente partecipe e consapevole di esperienze incisive ma evidentemente per lui troppo lontane…
Tornando sull’Isola, l’arte contemporanea gode comunque, almeno nel Sulcis, di buona salute, grazie alle numerose proposte della GiuseppeFrau Gallery (di cui fa parte colui che scrive) e dell’Associazione Cherimus, ma anche di due new entry, ovvero la Barega Agri Factory e la galleria, open space-open studio, Mangiabarche a Calasetta. Quindi non solo MAN, com’era la situazione se raccontata anche solo qualche anno fa… Per fortuna, comunque, il Museo d’Arte di Nuoro esiste e resiste ancora più ora che, piuttosto che essere messo sotto assedio, sembra essere messo sotto accusa da parte di alcuni artisti e curatori: forse si aspettavano ancora assistenza e più attenzione agli artisti sardi, in particolare quelligiovani, che si possono trovare ovunque in questo periodo eccetto che al MAN? Forse proprio per questo motivo bisognerebbe dare più fiducia, portando più pazienza e curiosità, al lavoro del successore della Collu – Lorenzo Giusti, reduce dalla chiusura del centro fiorentino Ex3, raccontato su questo webmagazine al link http://www.artapartofculture.net/2012/06/15/ma-che-fa-matteo-renzi-di-barbara-martusciello/ - che, con un budget ristretto e con il fiato sul collo, sembra comunque riuscire, almeno lo prevediamo nel futuro prossimo, a tirar fuori qualcosa del suo cilindro, anche se tutti chiedono di sostituire al tradizionale copricapo del mago una “berritta”.
E Cagliari? La città sembrava quasi risvegliarsi, in questo periodo, con iniziative extra-spazio, come la rassegna Innesti (curata da Alessandro Biggio) e l’Anti Map Festival, una sorta di strano e straniante itinerario di esplorazione artistica ed urbana, ma in realtà il resto si è confuso con la routine natalizia. Con la celebrazione del piccolo formato regalo ha ripreso la stagione espositiva della galleria Capitol, anticipata e seguita da un’interminabile sequenza di piccole mostre di altrettanto piccoli formati e piccoli tentativi, di sperimentazioni autoreferenziali più che autoprodotte, di rimpatriate di vecchi e nuovi compagni di scuola più che di viaggio. Crediamo ci sia ancora molto da lavorare…  e dobbiamo quindi fare una lunga trasferta fino a Sassari per ritrovare nuove e concrete energie positive e propositive (salutando rapidamente ma con simpatia il L.E.M., regno della pittura, spesso di buona ed ottima qualità e quasi sempre, anche qui, ahimè, di piccolo formato): la sorpresa è tutta nei pochi metri quadrati – un’ex officina – del Wilson Project Space. L’artista è cagliaritano, Marco Lampis, il progetto, n. modelli di dimensioni variabili no. Grazie anche alla curatrice, Micaela Deiana, in questo spazio si respira un’aria di ricerca artistica lontana dalle forme dell’autocelebrazione tipica di certe mostre cagliaritane, dove l’opera è sempre nascosta da un buon Cannonau e raramente ne regge il confronto. Certo, questa piccola ricognizione non rende giustizia ad una regione che sta forse dando il meglio di sé in questo particolare momento di crisi economica e sociale, ma la nostra intenzione, e speranza, è quella di spingere fuori dai binari un treno che altrimenti porterebbe alla solita stazione espositiva limitata.
Per fortuna ci sono artisti capaci di irrompere nel territorio del reale, come Nicola Mette, il quale, dopo aver convinto gruppi folkloristici e maschere tradizionali della Sardegna a scambiarsi i ruoli maschile-femminile, ha rischiato persino il linciaggio fisico da parte dei suoi compaesani scandalizzati per un’operazione d’arte colta e civilmente alta scambiata per pura provocazione. Imbarazzanti sono stati anche gli attacchi ricevuti via facebook postati da due curatori locali, che lo accusavano di essere, a trent’anni, un artista finito più che arrivato, dimostrando rozzezza nell’argomentazione storico-critica: per tutta risposta, Mette sta cercando più di mille persone disposte, per reagire con lui in maniera vitale alle tante posizioni retrograde del sistema, a correre scalze: le ha quasi già tutte trovate.

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qui man di nuoro

15 lug 2012

A Firenze aveva cercato di mantenere in vita un centro per l’arte contemporanea attraverso una dinamica curatoriale brillante anche se non particolarmente originale; ma per il trentacinquenne Lorenzo Giusti, originale era anche e sicuramente il tentativo di tenere attivo uno spazio in cui i contributi del comune dovevano essere limitati all’affitto e alle utenze, mentre il fund raising avrebbe dovuto sostenere tutto il resto; ma l’EX3 (http://www.artapartofculture.net/2012/06/15/ma-che-fa-matteo-renzi-di-barbara-martusciello/) è stato poi abbandonato anche da alcuni sponsor e la raccolta di fondi, da parte di sottoscrizioni volontarie (che partivano anche da soli 20,00 €), non è stata sufficiente ad evitarne la chiusura. Dopo il primo segnale, dato dalle dimissioni del gallerista Sergio Tossi, ne sono arrivati altri: non sono bastati cinque mesi al tandem curatoriale –  Giusti, appunto, e Arabella Natalini – a convincere l’amministrazione locale a fare uno sforzo ulteriore per salvaguardare il centro,. La chiusura è arrivata, come sappiamo, inevitabile: anche le risorse già destinate da alcuni partner sono state ridotte o destinate altrove.




Ora Lorenzo Giusti approda al MAN, un museo che il suo predecessore, Cristiana Collu, è riuscito ad inserire nei piani strategici di una provincia povera, periferica, ma orgogliosa e determinata a non far morire un progetto che ha varcato, con merito e competenza, i confini tra centro e periferia.
Ancora oggi ci chiediamo se il merito e la competenza siano tutti da attribuire alla solo Collu oppure se dietro questo successo c’erano la volontà di un territorio che ha saputo reagire alla disperazione di un isola, che a tratti sembra è sembrata essere un continente.
Con la nomina di Giusti il segnale sembra quello di continuare il confronto e, perché no, la competizione con il sistema dell’arte internazionale.
Anche se in questi ultimi anni alcuni curatori locali, tutti giovanissimi, hanno dato prova di saper leggere ed interpretare le fitte trame della ricerca e dell’innovazione artistica, anche internazionale, nessuno ha maturato ancora esperienze significative all’interno di musei per l’arte contemporanea; il loro contributo speriamo comunque sia preso in considerazione almeno per la lettura dei fermenti più innovativi prodotti da alcuni artisti sardi, che Giusti afferma già di conoscere in parte : “…Quanto al contemporaneo conosco alcuni giovani artisti sardi che ritengo molto validi”.
Molti degli artisti che oggi rappresentano la punta più avanzata della ricerca artistica nell’isola, non conoscono a loro volta il neo direttore: saranno gli stessi artisti sardi a cui Giusti si riferisce? Sinceramente non ci crediamo, ma almeno rimane la speranza.
Proprio la capacità di intervenire con rigore e lungimiranza in tal senso, è stato il limite curatoriale della Collu: non c’è sempre stata, cioè, corrispondenza tra le sue, rare, proposte sulla giovane arte “sarda”, se si escludono marginali ed affollate mostre, e la reale azione che alcuni giovani artisti stanno oggi proponendo a livello nazionale.
In compenso Giusti dichiara di conoscere la collezione d’arte sarda del Novecento del Man e ritiene che uno dei prossimi passi potrebbe essere un tributo all’opera di Salvatore Fancello“un grande artista che probabilmente non ha ancora avuto la giusta visibilità”: una rimessa dal fondo. questa, più che un calcio di rigore.
Verso la sua nomina non sono mancate le critiche; una, piuttosto accesa, da parte della presidente della Commissione Cultura del comune di Cagliari, Francesca Ghirra, molto legata alla competenza ed all’amicizia di Francesca Sassu (sicuramente una delle più dinamiche ed interessanti curatrici sarde che, purtroppo, non ha potuto partecipare al bando di selezione), che ha provocatoriamente scritto sul suo profilo Facebook : “Il MAN ha un nuovo direttore artistico e io, lungi dal dubitare della sua preparazione e competenza professionale, sono molto pessimista e infastidita di come nel nostro paese vengono condotte le selezioni pubbliche”.
Una frase assolutamente legittima, che ha provocato, come consuetudine sul social network, una serie di amplificati post, che hanno provocato la reazione dello scrittore Marcello Fois, che ha pubblicato un duro e delirante articolo su “Sardegna democratica” (http://www.sardegnademocratica.it/culture/una-politica-pessimista-e-infastidita-da-cosa-1.27759?+Da+cosa%3F).
In ogni caso, riteniamo azzeccata la scelta della commissione, presieduta dal dirigente del settore Cultura della Provincia di Nuoro, Giuseppe Zucca, di cui faceva parte, appunto, anche lo scrittore Marcello Fois. Per la cronaca ecco la graduatoria dei primi dieci: Giusti Lorenzo, Peri Marco, Cuccuru Manuela, Campus Simona, Camarda Antonella,Coppola Margherita, Leoni Chiara, Atzeni Giorgia, Corona Alessandra, Martino Elda.
E per i contestati burocratici criteri rimandiamo al link:
http://www.provincia.nuoro.it/components/com_albopretoriosetup/show.php?id=2&it=SI
Nell’augurare un buon lavoro al neo direttore, speriamo di esercitare la penna nel celebrarne i successi, che poi sarebbero un successo per un’intera isola e per l’arte contemporanea tutta.
Per fortuna, comunque, l’isola oggi non è più solo il MAN!

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