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Articoli su art a part of cult(ure)
qui man di nuoro 15/07/2012
sardegna oggi, tra omologazione, sperimentazione e tv-spazzatura 11/01/2013
artist-in-residence exhibition. fondazione macc calesetta 04/02/2013
99 ideas. call for sulcis: ed ora anche l'arte e la cultura dimostrino... 10/03/2013
sardegna isola felice? e perché dovrebbe esserlo! 09/04/2013
l'isola che non ti aspetti è qui 11/07/2013
Se la provincia cerca di ucciderti allora reagisci per primo. 10/02/2014
macc di calasetta un viaggio senza ritorno 1/04/2014

L’avevamo anticipato nell’articolo precedente: dopo aver indotto alle dimissioni il Leone d’Oro Stefano Rabolli Pansera, la Fondazione MACC ha nominato come nuovo direttore (art director?) l’artista, critico, incisore, nonché docente dell’Accademia di Torino, Pino Mantovani.
Ma non finisce qui: il museo verrà dedicato esclusivamente alla valorizzazione della collezione, quindi non sarà più sede delle attività legate alla residenza dei giovani artisti, i quali dovranno operare nella galleria (a cielo aperto) di Mangiabarche.
In parole povere, quella che rappresentava la vera novità del progetto Beyond Entropy, cioè il mettere in relazione dinamica museo, galleria Mangiabarche, residenze e giovani artisti, viene di fatto azzerata, silurando Rabolli Pansera per eccessiva innovazione ma facendo girare la voce sui presunti alti (?) costi delle residenze. Girare la voce è il termine giusto, e non solo per descrivere una realtà sociale (del resto Calasetta è un piccolo centro del Sulcis), ma soprattutto per rimarcare il fatto che nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata e nessun bando pubblico è stato necessario, arrivando nell’assoluto silenzio (anche da parte del mondo dell’arte isolano) ad una soluzione che potrebbe mettere a rischio il prezioso lavoro fatto finora.
Costi che non deve essere stato poi così difficile far passare per
insostenibili, soprattutto di questi tempi e da queste parti. Una cifra
probabilmente al di sopra delle normali spese pensate e dedicate
all’arte e alla cultura, ma fatta girare senza evidenziarne l’onestà
delle singole voci. Per quello che abbiamo potuto dedurre dalle nostre
informazioni il capitolo è composto da normalissimi costi di viaggio a/r
(prevalentemente low cost), molti dei quali da Londra (area da cui
provenivano, oltre che lo stesso direttore, la gran parte degli artisti
in residenza), un mese di permanenza (in popolarissima casa in affitto a
bassissimo canone) con pranzi il più delle volte frugali (quasi sempre
in casa o nello studio nel museo ma raramente al ristorante), un modesto
ma sufficiente rimborso spese, un piccolo contributo per la produzione
delle opere, in molte occasioni realizzate quasi a costo zero, spesso
con l’aiuto di artigiani e mano d’opera locale (questa mai a costo
zero). Moltiplichiamo il tutto per quasi un anno di attività con una
turnazione media di due artisti al mese, mettiamoci su un altro
preventivo per imbiancare ogni tanto alcune pareti per cancellare gli
interventi site specific degli artisti ed eccoci arrivati ad una cifra
abbastanza consistente, utile per dimostrarci di essere stati bravi (o
costretti?) nell’aver messo in luce e posto rimedio all’insostenibile
spreco e all’impopolare sprecone. Poco importa che allo stesso costo di
una serie di mostre tradizionali (dello stesso livello e numero) la
Fondazione ed il Comune di Calasetta hanno potuto contare su
un’attenzione mediatica senza precedenti e per ogni giorno dell’anno. Il
clima che si respira è pesante, molti degli addetti ai lavori
preferiscono aspettare comunicazioni ufficiali ed un riscontro oggettivo
nei dati, ma a me basta osservare che la programmazione è ferma da
quasi cinque mesi e che la residenza di Giorgio Andreotta Calò prevista
per Dicembre non ha avuto luogo: questo sarebbe dovuto bastare per
mettere in allarme, ma niente di tutto ciò è accaduto, solo un
preoccupante grande silenzio.
Certo, ad oggi, nessuna notizia lascia intendere che le residenze verranno meno e che prima di esprimere un giudizio così preoccupato come il nostro bisognerebbe attendere di conoscere il programma del nuovo direttore, ma la puzza di bruciato è piuttosto forte e se a bruciare non fosse la speranza che il Sulcis possa essere qualcosa di più che il territorio più povero, più inquinato, più depresso, più ostile e… più assistito d’Italia.
Nella Fondazione, nell’amministrazione locale e nella popolazione sicuramente qualcuno si è indignato per la presenza di opere e di pratiche curatoriali poco rispettose della collezione, che ha rischiato di passare in secondo piano rispetto all’irruenza visiva e mediatica dei giovani artisti.
Ma l’ipocrisia è lunga quanto la memoria sembra essere corta: nel 2000, quando fu inaugurato il Museo (voluto dall’artista Ermanno Leinardi 1933-2006), l’evento dovette svolgersi con la presenza delle forze dell’ordine, chiamate per proteggere la collezione da una popolazione infuriata, scatenata ad arte da chi le aveva fatto credere che il comune avesse speso addirittura un miliardo delle vecchie lire, quando in realtà essa non costò neppure un centesimo alle casse comunali.
Ci fa sicuramente piacere tutto questo rinato ed improvviso amore verso
il museo e la collezione, ma ricordo di aver visto personalmente i
registi delle presenze prima che arrivasse Stefano Rabolli Pansera, e
aggiungerei la bravissima Valeria Frisolone (anch’essa messa alla
porta?): ebbene, nonostante il museo fosse aperto tutto l’anno, non
trovai che la presenza di non più di dieci persone al mese, a parte
naturalmente il periodo estivo. Certo valorizzare la collezione è
importante, anzi direi fondamentale, dal momento che si tratta di una
delle più importanti in Italia per quanto riguarda l’arte astratta:
prestigiosa soprattutto nei nomi però, non di certo nella qualità nelle
opere, donate dagli artisti amici ed ospiti di Ermanno Leinardi nella
sua meravigliosa Calasetta. Giocoforza, quasi nessuno degli artisti, di
ben altro successo rispetto al locale maestro, ha risposto a tanta
sincera ospitalità con un capolavoro o sua indimenticabile opera
fondamentale. Ma cosa c’è di peggio per valorizzare una collezione
d’arte astratta che mettere come nuovo direttore un artista figurativo
(nel senso più banale e deleterio del termine) tradendo proprio l’utopia
estetica e rivoluzionaria portata avanti dall’arte astratta che tanto
si vorrebbe difendere e valorizzare? Non sarebbe stato più coerente
portare avanti il progetto (recuperando altre necessarie risorse) che
invitava gli artisti ospiti (alcuni dei quali, seppur giovani, con una
promettente e concreta carriera artistica e commerciale) a produrre
chances per capolavori, per arricchire ed aggiornare la collezione?
Non vorremmo che tutto questo monta, smonta e rimonta finisca per essere la solita sfida tra un’arte che si appende alle pareti e alla pacifica coscienza collettiva V/S quella che utilizza le stesse pareti e la coscienza collettiva come opera; o peggio ancora: che il gioco riguardi certa sostenibilità da parte della politica che non vede di buon auspicio azioni estetiche e culturali e costi non comprensibili agli elettori?
Nell’Isola, sull’insostenibilità dei costi e, in questo caso, delle archistar, è già stato affondato il Betile: Cappellacci e la sua banda erano riusciti a far credere alla popolazione del limitrofo e poverissimo quartiere di Sant’Elia che i soldi destinati al museo progettato dall’Hadid fossero stati sottratti all’edilizia popolare.
La necessità di continuare nell’ottica della professionalità, del rigore e della qualità della ricerca artistica contemporanea è l’unico antidoto contro chi, cavalcando un populismo carico di stereotipi e di menzogne, continua a dominare e a demolire ogni tentativo di rinascita culturale e sociale nei territori periferici. La colpa però è anche di chi opera con l’esclusiva preoccupazione di quello che arriva (e rimane) dentro il sistema dell’arte di riferimento, incurante se nell’azione artistica, che ha coinvolto un determinato territorio, siano state messe in campo azioni adeguate anche ad educare sui linguaggi ed i codici espressivi specifici dell’arte contemporanea. Alla fine queste cattive pratiche autoreferenziali finiranno per fare tabula rasa anche delle esperienze positive, spianando la strada al ritorno ed al trionfo locale di artisti, imbonitori e politici mediocri incapaci e poco interessati a creare valore culturale reale?
Pino Giampà
L’ignoranza genera mostri, ad Iglesias, Sud-ovest della Sardegna, genera anche sculture.
Il Bel Paese, lo sappiamo, è tanto bello quanto pieno d’oscenità visive: a farla da padrone, fino ad ora, è stato l’abusivismo edilizio, lo stile nazional-palazzinaro e l’ingordigia ambientale delle case a schiera vista mare, il tutto condito da appassionate relazioni tra imprenditori ed amministratori comunali, a volte in odore di mafia, altre semplicemente in odore di soldi o di voti facili.
In questi contesti così esteticamente degradati e degradanti, anche l’arte ha avuto la sua brutta parte facendo da cornice ad arredamenti prodotti nella peggiore tradizione deltrashdesign, ma è nel Sulcis, in particolare adIglesias, che da qualche anno si è aperta una falla culturale dovuta ad un’invasione di opere in perfetta sintonia con il malcostume visivo (etico-estetico) tanto caro agli esempi-scempi edilizi appena citati.
La complicità e l’assoluta mancanza di gusto, e competenze, nel settore da parte di alcuni segmenti importanti della città rischiano di rendere vano ogni tentativo fatto fin ora di portare il fare arte, nella provincia più povera d’Italia, ad un livello utile alla sua rinascita economica e sociale.
Il caso che questo articolo vuole denunciare non riguarda l’amministrazione locale, sindaco e assessore alla cultura per intenderci, ma l’atteggiamento di certi personaggi ed alcune associazioni che, almeno nelle intenzioni della loro mission, dovrebbero garantire un processo di qualità della cultura. Invece queste associazioni si sono distinte negli anni, sopratutto per aver saputo costruire un vero e proprio apparato parapolitico nel centro sinistra locale, realizzando comunque operazioni culturalmente dignitose soprattutto nel campo del cinema, ma per quanto riguarda le arti figurative si rivolgono esclusivamente ad un prodotto equivalente, tradotto nel cinema, ai cinepanettoni commerciali, per non dire a certi sottoprodotti audiovisivi amatoriali.
A tutti noi capita spesso di incontrare persone preparate e competenti nel campo letterario, cinematografico e musicale, però completamente digiune d’arte contemporanea, ma qui, ad Iglesias, siamo di fronte ad un vero e proprio granchio etico-estetico, che rischia di trasformarsi in un grottesco quanto pericoloso precedente.
Sicuramente in buona fede, allettato dalle prospettive di un buon orientamento nel territorio per far rinascere il locale Liceo Artistico, ormai con due sole sezioni ridotto ai minimi termini, il preside, con la Società Operaia di Mutuo Soccorso, si è fatto promotore di un simposio (si da noi li chiamano ancora così) di scultura, dove, più o meno, sempre gli stessi artisti cercano grossolanamente di domare grandi blocchi di pietra a mo’ d’immagine appena abbozzata di un minatore o di una cernitrice, e questa deriva figurativa nazional-popolare è addirittura richiesta, nel sito di presentazione del progetto, come condizione alla partecipazione: ogni anno ne vengono prodotte circa una decina che poi la città deve accollarsi, per contratto, in modo permanente, sistemandole nei pubblici giardini. Siamo abituati a veder comparire nelle nostre città sculture e monumenti di cattivo gusto e di anacronistia qualità artistica, ma questo ritmo, e con tanta ignoranza, Iglesias rischia seriamente, nel giro di una decina d’anni, di avere il record di brutte opere (d’arte?) pubbliche in tutta Italia. L’incauto dirigente scolastico si è rivelato quindi tanto digiuno d’arte quanto dotato di un particolare talento nel farsi coinvolgere da artisti che giusto personaggi alla Diprè (dietro lauto compenso) potrebbero definire tali, con il rischio, anche di compromettere il lavoro che molti altri artisti, provenienti proprio da quel liceo artistico che lui dirige, hanno fatto proprio per evitare che nel territorio, dopo i danni della crisi, arrivassero anche quelli provocati dalle derive culturali ad essa collegate.
Lanciata la polemica, soprattutto attraverso i social network, ecco comparire a difesa dello scempio estetico le immancabili figurine, tipiche dei salottini, dei bar e dei circoli di partito, della nostra provincia: caporali che non perdono mai l’occasione per palesare tutto il loro disprezzo verso chi prova a sprovincializzare e glocalizzare il fare e analizzare arte nel territorio.
Forse alcuni sperano in questo modo di costringere gli artisti, che non ci stanno ad abbandonare la città alla mediocrità visiva, ad operare un dietro-front rispetto all’impegno verso la rinascita culturale del territorio, costringendoli, magari, anche a ripensare le loro carriere artistiche e professionali in altre città.
Resistenza-Residenza! Se si accettasse di tener conto del giudizio, dei gusti e delle provocazioni di queste persone si compirebbe l’ennesimo triste rituale delle provincia che costringe inesorabilmente i suoi artisti migliori ad un esilio forzato, ma per fortuna, almeno per ora, gli artisti che operano all’interno del Distretto Culturale Open Source proprio non ci stanno ad abbandonare il loro territorio al più degradante sottobosco artistico e culturale rappresentato dagli operatori coinvolti in questi osceni simposi, ma non sono disposti a far passare sotto una, altrove, legittima indifferenza del vivere e del lasciar vivere, ormai questo amatorialismo diffuso sta pian piano occupando tutti gli spazi e le occasioni disponibili in città.
Quando si parla di abusi e di scempi edilizi c’è sempre la speranza che qualcuno un giorno finisca in galera, ma per i crimini compiuti in nome dell’arte la cosa di solito finisce solo per condannare la comunità al basso profilo artistico e culturale prima e a rimanere nei bassifondi di quello etico, economico e sociale, poi. Ma non si sa mai che, prima o poi, qualcuno di questi impostori visivi venga condannato, ancor prima che dalla storia, anche dalla stessa comunità che hanno pensato di ingannare e sfruttare.
Proprio il Sulcis si è dimostrato, in questi ultimi anni un laboratorio d’eccellenza per la ricerca artistica: MACC e galleria Mangiabarche a Calasetta, Cherimus, GiuseppeFrau Gallery (seppure sono parte interessata, la cito anche perché progetto collettivo) e Agri-factory Barega (Distretto Culturale Open Source ) sono il risultato di questo processo che ha avuto un certo riscontro anche a livello internazionale. Quindi appare fisiologico che a questo punto, se non scatta l’accoglienza ed il riconoscimento (cosa piuttosto difficile in territori ostili come il nostro) arriva puntuale quell’attacco prodotto dalla stessa politica che ha condannato il Sulcis ad un mare di veleni, prodotti da un’industrializzazione che ha avuto come scopo principale non solo quello di riempire le pance degli azionisti, ma anche di voti per le carriere di chi ancora tiene sotto scacco e ricatto il territorio. Tenere fuori l’arte e gli artisti che fanno ricerca, significa appunto voler rinunciare alla consapevolezza del presente e alla capacità di saper pensare il futuro propria dell’arte contemporanea impegnata, soprattutto nell’arte pubblica e sociale, puntando ancora sulla mancanza di comprensione e diffusione tra la popolazione dei codici specifici. Del resto è la stessa cosa che hanno fatto le grandi dittature del secolo scorso: si traccia come degenerata l’arte contemporanea ed al posto degli artisti d’avanguardia ci si rivolge ad artisti che possono passare tranquillamente da un ritratto di Stalin ad uno di un minatore, a seconda della volontà e dell’appartenenza politica.
Del resto alcuni preoccupanti segnali iniziano a manifestarsi e sembra che neppure un Leone d’oro come Stefano Rabolli Pansera passi indenne dalla ghigliottina di questi tentativi di restaurazione. Peccato, Calasetta sembrava quasi immune, ma la politica da queste parti non ti permette nessuna distanza e soprattutto nessuna possibilità di sopravvivenza se cerchi di dimostrare sul serio vie alternative di sviluppo e d’identità.
Carbonia, la più giovane città d’Europa, non è da meno, e pensare che solo fino a due anni fa si parlava di candidarla a Capitale europea della cultura. Oggi è Cagliari, ufficialmente candidata ed il Sulcis è ancora in gioco proprio con il capoluogo, ma se fate un giro in quello che fu il Territorium Museum (c’è ancora la scritta realizzata del collettivo GFG) noterete che al posto degli artisti che l’hanno inaugurato con le proprie mostre/workshop(Trevisani, Stampone, Perrone) oggi si fanno mostre di (probabili) amici dell’Assessore alla cultura (SEL) raccattati in una galleria nuorese che stimiamo di quart’ordine, dove era appena stata per presentare, e vendere, il suo libro.
Forse sarebbe il caso che proprio certi personaggi, spesso facenti capo a partiti ed associazioni di sinistra e quindi ispirati da una tradizione progressista e anticonservatrice, si domandassero se non fosse il caso che anche l’opera d’arte fosse trattata, letta, apprezzata e considerata nei contenuti della qualità del mezzo e del messaggio; così facendo, forse non si rivolgerebbero ad opere e artisti che nel loro fare sono nettamente conservatori e nazional-popolari. Detto in parole povere: non basta che l’artista impegnato sia iscritto ad un partito o ad un’associazione simpatizzante in area politica progressista per diventarlo automaticamente lui e innalzare a tale stato anche la sua opera; anzi: molto spesso, dietro certe dichiarazioni dei nipotini di Gramsci e dei figli di Santoro, si palesano opere ed artisti che lanciano forme e messaggi esattamente contrari, più adatte a momenti storici in cui le dittature ed il populismo la facevano da padrone.
Insomma si rendano conto una volta per tutte, che non possono da una parte amare il cinema, la letteratura, la musica d’autore, condannare l’abusivismo edilizio e gli scempi ambientali e proporre dall’altra opere ed artisti che non solo sono esattamente all’opposto, ma che spesso combattono duramente la ricerca artistica contemporanea (e d’autore).
Facendo leva sulla quasi totale assenza di familiarità con i codici ed i linguaggi dell’arte contemporanea di una buona parte della popolazione, gli Sgarbi ed i Diprè hanno costruito la loro fortuna mediatica, esattamente come una certa politica ha sfruttato le stesse lacune per fare il pieno di voti e di populismo. Questa parte becera e conservatrice (ma politicamente trasversale) insiste nel far credere che la qualità dell’arte possa, al pari di qualsiasi altro prodotto, essere decisa a naso, rivolgendosi al proprio gusto personale senza chiedersi se questo fosse in realtà allenato ed alimentato da una corretta esperienza. A questo gioco, dalle nostre parti, si prestano anche insospettabili associazioni che pure dovrebbero ben conoscere gli sforzi, proprio da loro compiuti, per educare la gente al buon cinema o al buon cibo: non si riesce a capire come possano pretendere che la più complessa tra le arti sia invece abbandonata alla pura esperienza sensoriale senza nessun riscontro oggettivo o formativo, sicuri oltretutto che questo non produca, nel tempo, danni economici e sociali ben peggiori del cattivo cinema e del cattivo cibo.
Questa storia, apparentemente lontana anni di luce dalle dinamiche dei centri della cultura dell’arte contemporanea e del target a cui si rivolge questa testata, non vuole essere il segnale di una resa, quanto piuttosto una dichiarazione di guerra per non abbandonare le nostre province in mano a certi gesti irresponsabili, ma anche per evitare che prima o poi questi finiscano per costringere la ricerca artistica d’avanguardia ad arroccarsi sempre di più all’interno di nicchie sempre più in alto per essere ancora in grado di poter interagire con la comunità.
Intanto per evitare che il territorio resti scoperto agli attacchi del terrorismo kitsch e da certi criminali estetici, proprio ad Iglesias il collettivo GiuseppeFrau Gallery sta collaborando con l’amministrazione comunale per la creazione di una Scuola Civica d’Arte Contemporanea, la prima di questo genere in Italia. Hanno già dato la disponibilità a collaborare alcuni tra i giovani curatori ed artisti sardi in prima linea da anni per evitare che la Sardegna diventi dimora privilegiata degli scarti di produzione artistica e culturale spesso provenienti dal Continente. Non sarà una cosa facile e sicuramente saranno in molti a cercare di far naufragare l’idea: non dimentichiamoci che intorno a questa esperienza c’è infatti il territorio non solo più povero d’Italia, ma anche il più inquinato, depresso, politicamente compromesso e culturalmente ostile; proprio per questo un laboratorio irripetibile in cui il fare arte si scontra quotidianamente con l’arte di chi, seppur abbia toccato il fondo, preferisce continuare a scavare piuttosto che cercare di risalire.
qui man di nuoro 15/07/2012
sardegna oggi, tra omologazione, sperimentazione e tv-spazzatura 11/01/2013
artist-in-residence exhibition. fondazione macc calesetta 04/02/2013
99 ideas. call for sulcis: ed ora anche l'arte e la cultura dimostrino... 10/03/2013
sardegna isola felice? e perché dovrebbe esserlo! 09/04/2013
l'isola che non ti aspetti è qui 11/07/2013
Se la provincia cerca di ucciderti allora reagisci per primo. 10/02/2014
macc di calasetta un viaggio senza ritorno 1/04/2014
MACC di Calasetta: un viaggio senza ritorno?

L’avevamo anticipato nell’articolo precedente: dopo aver indotto alle dimissioni il Leone d’Oro Stefano Rabolli Pansera, la Fondazione MACC ha nominato come nuovo direttore (art director?) l’artista, critico, incisore, nonché docente dell’Accademia di Torino, Pino Mantovani.
Ma non finisce qui: il museo verrà dedicato esclusivamente alla valorizzazione della collezione, quindi non sarà più sede delle attività legate alla residenza dei giovani artisti, i quali dovranno operare nella galleria (a cielo aperto) di Mangiabarche.
In parole povere, quella che rappresentava la vera novità del progetto Beyond Entropy, cioè il mettere in relazione dinamica museo, galleria Mangiabarche, residenze e giovani artisti, viene di fatto azzerata, silurando Rabolli Pansera per eccessiva innovazione ma facendo girare la voce sui presunti alti (?) costi delle residenze. Girare la voce è il termine giusto, e non solo per descrivere una realtà sociale (del resto Calasetta è un piccolo centro del Sulcis), ma soprattutto per rimarcare il fatto che nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata e nessun bando pubblico è stato necessario, arrivando nell’assoluto silenzio (anche da parte del mondo dell’arte isolano) ad una soluzione che potrebbe mettere a rischio il prezioso lavoro fatto finora.
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una sala del museo durante una residenza |
Certo, ad oggi, nessuna notizia lascia intendere che le residenze verranno meno e che prima di esprimere un giudizio così preoccupato come il nostro bisognerebbe attendere di conoscere il programma del nuovo direttore, ma la puzza di bruciato è piuttosto forte e se a bruciare non fosse la speranza che il Sulcis possa essere qualcosa di più che il territorio più povero, più inquinato, più depresso, più ostile e… più assistito d’Italia.
Nella Fondazione, nell’amministrazione locale e nella popolazione sicuramente qualcuno si è indignato per la presenza di opere e di pratiche curatoriali poco rispettose della collezione, che ha rischiato di passare in secondo piano rispetto all’irruenza visiva e mediatica dei giovani artisti.
Ma l’ipocrisia è lunga quanto la memoria sembra essere corta: nel 2000, quando fu inaugurato il Museo (voluto dall’artista Ermanno Leinardi 1933-2006), l’evento dovette svolgersi con la presenza delle forze dell’ordine, chiamate per proteggere la collezione da una popolazione infuriata, scatenata ad arte da chi le aveva fatto credere che il comune avesse speso addirittura un miliardo delle vecchie lire, quando in realtà essa non costò neppure un centesimo alle casse comunali.
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un'incisione del nuovo direttore Pino Mantovani |
Non vorremmo che tutto questo monta, smonta e rimonta finisca per essere la solita sfida tra un’arte che si appende alle pareti e alla pacifica coscienza collettiva V/S quella che utilizza le stesse pareti e la coscienza collettiva come opera; o peggio ancora: che il gioco riguardi certa sostenibilità da parte della politica che non vede di buon auspicio azioni estetiche e culturali e costi non comprensibili agli elettori?
Nell’Isola, sull’insostenibilità dei costi e, in questo caso, delle archistar, è già stato affondato il Betile: Cappellacci e la sua banda erano riusciti a far credere alla popolazione del limitrofo e poverissimo quartiere di Sant’Elia che i soldi destinati al museo progettato dall’Hadid fossero stati sottratti all’edilizia popolare.
La necessità di continuare nell’ottica della professionalità, del rigore e della qualità della ricerca artistica contemporanea è l’unico antidoto contro chi, cavalcando un populismo carico di stereotipi e di menzogne, continua a dominare e a demolire ogni tentativo di rinascita culturale e sociale nei territori periferici. La colpa però è anche di chi opera con l’esclusiva preoccupazione di quello che arriva (e rimane) dentro il sistema dell’arte di riferimento, incurante se nell’azione artistica, che ha coinvolto un determinato territorio, siano state messe in campo azioni adeguate anche ad educare sui linguaggi ed i codici espressivi specifici dell’arte contemporanea. Alla fine queste cattive pratiche autoreferenziali finiranno per fare tabula rasa anche delle esperienze positive, spianando la strada al ritorno ed al trionfo locale di artisti, imbonitori e politici mediocri incapaci e poco interessati a creare valore culturale reale?
Pino Giampà
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una sala del museo oggi, con la collezione sulle pareti (e sui tavoli), in fondola pedana per le esibizioni canore e poetiche |
Se la provincia cerca di ucciderti allora reagisci per primo.
10 febbraio 2014
L’ignoranza genera mostri, ad Iglesias, Sud-ovest della Sardegna, genera anche sculture.
Il Bel Paese, lo sappiamo, è tanto bello quanto pieno d’oscenità visive: a farla da padrone, fino ad ora, è stato l’abusivismo edilizio, lo stile nazional-palazzinaro e l’ingordigia ambientale delle case a schiera vista mare, il tutto condito da appassionate relazioni tra imprenditori ed amministratori comunali, a volte in odore di mafia, altre semplicemente in odore di soldi o di voti facili.
In questi contesti così esteticamente degradati e degradanti, anche l’arte ha avuto la sua brutta parte facendo da cornice ad arredamenti prodotti nella peggiore tradizione deltrashdesign, ma è nel Sulcis, in particolare adIglesias, che da qualche anno si è aperta una falla culturale dovuta ad un’invasione di opere in perfetta sintonia con il malcostume visivo (etico-estetico) tanto caro agli esempi-scempi edilizi appena citati.
La complicità e l’assoluta mancanza di gusto, e competenze, nel settore da parte di alcuni segmenti importanti della città rischiano di rendere vano ogni tentativo fatto fin ora di portare il fare arte, nella provincia più povera d’Italia, ad un livello utile alla sua rinascita economica e sociale.
Il caso che questo articolo vuole denunciare non riguarda l’amministrazione locale, sindaco e assessore alla cultura per intenderci, ma l’atteggiamento di certi personaggi ed alcune associazioni che, almeno nelle intenzioni della loro mission, dovrebbero garantire un processo di qualità della cultura. Invece queste associazioni si sono distinte negli anni, sopratutto per aver saputo costruire un vero e proprio apparato parapolitico nel centro sinistra locale, realizzando comunque operazioni culturalmente dignitose soprattutto nel campo del cinema, ma per quanto riguarda le arti figurative si rivolgono esclusivamente ad un prodotto equivalente, tradotto nel cinema, ai cinepanettoni commerciali, per non dire a certi sottoprodotti audiovisivi amatoriali.
A tutti noi capita spesso di incontrare persone preparate e competenti nel campo letterario, cinematografico e musicale, però completamente digiune d’arte contemporanea, ma qui, ad Iglesias, siamo di fronte ad un vero e proprio granchio etico-estetico, che rischia di trasformarsi in un grottesco quanto pericoloso precedente.
Sicuramente in buona fede, allettato dalle prospettive di un buon orientamento nel territorio per far rinascere il locale Liceo Artistico, ormai con due sole sezioni ridotto ai minimi termini, il preside, con la Società Operaia di Mutuo Soccorso, si è fatto promotore di un simposio (si da noi li chiamano ancora così) di scultura, dove, più o meno, sempre gli stessi artisti cercano grossolanamente di domare grandi blocchi di pietra a mo’ d’immagine appena abbozzata di un minatore o di una cernitrice, e questa deriva figurativa nazional-popolare è addirittura richiesta, nel sito di presentazione del progetto, come condizione alla partecipazione: ogni anno ne vengono prodotte circa una decina che poi la città deve accollarsi, per contratto, in modo permanente, sistemandole nei pubblici giardini. Siamo abituati a veder comparire nelle nostre città sculture e monumenti di cattivo gusto e di anacronistia qualità artistica, ma questo ritmo, e con tanta ignoranza, Iglesias rischia seriamente, nel giro di una decina d’anni, di avere il record di brutte opere (d’arte?) pubbliche in tutta Italia. L’incauto dirigente scolastico si è rivelato quindi tanto digiuno d’arte quanto dotato di un particolare talento nel farsi coinvolgere da artisti che giusto personaggi alla Diprè (dietro lauto compenso) potrebbero definire tali, con il rischio, anche di compromettere il lavoro che molti altri artisti, provenienti proprio da quel liceo artistico che lui dirige, hanno fatto proprio per evitare che nel territorio, dopo i danni della crisi, arrivassero anche quelli provocati dalle derive culturali ad essa collegate.
Lanciata la polemica, soprattutto attraverso i social network, ecco comparire a difesa dello scempio estetico le immancabili figurine, tipiche dei salottini, dei bar e dei circoli di partito, della nostra provincia: caporali che non perdono mai l’occasione per palesare tutto il loro disprezzo verso chi prova a sprovincializzare e glocalizzare il fare e analizzare arte nel territorio.
Forse alcuni sperano in questo modo di costringere gli artisti, che non ci stanno ad abbandonare la città alla mediocrità visiva, ad operare un dietro-front rispetto all’impegno verso la rinascita culturale del territorio, costringendoli, magari, anche a ripensare le loro carriere artistiche e professionali in altre città.
Resistenza-Residenza! Se si accettasse di tener conto del giudizio, dei gusti e delle provocazioni di queste persone si compirebbe l’ennesimo triste rituale delle provincia che costringe inesorabilmente i suoi artisti migliori ad un esilio forzato, ma per fortuna, almeno per ora, gli artisti che operano all’interno del Distretto Culturale Open Source proprio non ci stanno ad abbandonare il loro territorio al più degradante sottobosco artistico e culturale rappresentato dagli operatori coinvolti in questi osceni simposi, ma non sono disposti a far passare sotto una, altrove, legittima indifferenza del vivere e del lasciar vivere, ormai questo amatorialismo diffuso sta pian piano occupando tutti gli spazi e le occasioni disponibili in città.
Quando si parla di abusi e di scempi edilizi c’è sempre la speranza che qualcuno un giorno finisca in galera, ma per i crimini compiuti in nome dell’arte la cosa di solito finisce solo per condannare la comunità al basso profilo artistico e culturale prima e a rimanere nei bassifondi di quello etico, economico e sociale, poi. Ma non si sa mai che, prima o poi, qualcuno di questi impostori visivi venga condannato, ancor prima che dalla storia, anche dalla stessa comunità che hanno pensato di ingannare e sfruttare.
Proprio il Sulcis si è dimostrato, in questi ultimi anni un laboratorio d’eccellenza per la ricerca artistica: MACC e galleria Mangiabarche a Calasetta, Cherimus, GiuseppeFrau Gallery (seppure sono parte interessata, la cito anche perché progetto collettivo) e Agri-factory Barega (Distretto Culturale Open Source ) sono il risultato di questo processo che ha avuto un certo riscontro anche a livello internazionale. Quindi appare fisiologico che a questo punto, se non scatta l’accoglienza ed il riconoscimento (cosa piuttosto difficile in territori ostili come il nostro) arriva puntuale quell’attacco prodotto dalla stessa politica che ha condannato il Sulcis ad un mare di veleni, prodotti da un’industrializzazione che ha avuto come scopo principale non solo quello di riempire le pance degli azionisti, ma anche di voti per le carriere di chi ancora tiene sotto scacco e ricatto il territorio. Tenere fuori l’arte e gli artisti che fanno ricerca, significa appunto voler rinunciare alla consapevolezza del presente e alla capacità di saper pensare il futuro propria dell’arte contemporanea impegnata, soprattutto nell’arte pubblica e sociale, puntando ancora sulla mancanza di comprensione e diffusione tra la popolazione dei codici specifici. Del resto è la stessa cosa che hanno fatto le grandi dittature del secolo scorso: si traccia come degenerata l’arte contemporanea ed al posto degli artisti d’avanguardia ci si rivolge ad artisti che possono passare tranquillamente da un ritratto di Stalin ad uno di un minatore, a seconda della volontà e dell’appartenenza politica.
Del resto alcuni preoccupanti segnali iniziano a manifestarsi e sembra che neppure un Leone d’oro come Stefano Rabolli Pansera passi indenne dalla ghigliottina di questi tentativi di restaurazione. Peccato, Calasetta sembrava quasi immune, ma la politica da queste parti non ti permette nessuna distanza e soprattutto nessuna possibilità di sopravvivenza se cerchi di dimostrare sul serio vie alternative di sviluppo e d’identità.
Carbonia, la più giovane città d’Europa, non è da meno, e pensare che solo fino a due anni fa si parlava di candidarla a Capitale europea della cultura. Oggi è Cagliari, ufficialmente candidata ed il Sulcis è ancora in gioco proprio con il capoluogo, ma se fate un giro in quello che fu il Territorium Museum (c’è ancora la scritta realizzata del collettivo GFG) noterete che al posto degli artisti che l’hanno inaugurato con le proprie mostre/workshop(Trevisani, Stampone, Perrone) oggi si fanno mostre di (probabili) amici dell’Assessore alla cultura (SEL) raccattati in una galleria nuorese che stimiamo di quart’ordine, dove era appena stata per presentare, e vendere, il suo libro.
Forse sarebbe il caso che proprio certi personaggi, spesso facenti capo a partiti ed associazioni di sinistra e quindi ispirati da una tradizione progressista e anticonservatrice, si domandassero se non fosse il caso che anche l’opera d’arte fosse trattata, letta, apprezzata e considerata nei contenuti della qualità del mezzo e del messaggio; così facendo, forse non si rivolgerebbero ad opere e artisti che nel loro fare sono nettamente conservatori e nazional-popolari. Detto in parole povere: non basta che l’artista impegnato sia iscritto ad un partito o ad un’associazione simpatizzante in area politica progressista per diventarlo automaticamente lui e innalzare a tale stato anche la sua opera; anzi: molto spesso, dietro certe dichiarazioni dei nipotini di Gramsci e dei figli di Santoro, si palesano opere ed artisti che lanciano forme e messaggi esattamente contrari, più adatte a momenti storici in cui le dittature ed il populismo la facevano da padrone.
Insomma si rendano conto una volta per tutte, che non possono da una parte amare il cinema, la letteratura, la musica d’autore, condannare l’abusivismo edilizio e gli scempi ambientali e proporre dall’altra opere ed artisti che non solo sono esattamente all’opposto, ma che spesso combattono duramente la ricerca artistica contemporanea (e d’autore).
Facendo leva sulla quasi totale assenza di familiarità con i codici ed i linguaggi dell’arte contemporanea di una buona parte della popolazione, gli Sgarbi ed i Diprè hanno costruito la loro fortuna mediatica, esattamente come una certa politica ha sfruttato le stesse lacune per fare il pieno di voti e di populismo. Questa parte becera e conservatrice (ma politicamente trasversale) insiste nel far credere che la qualità dell’arte possa, al pari di qualsiasi altro prodotto, essere decisa a naso, rivolgendosi al proprio gusto personale senza chiedersi se questo fosse in realtà allenato ed alimentato da una corretta esperienza. A questo gioco, dalle nostre parti, si prestano anche insospettabili associazioni che pure dovrebbero ben conoscere gli sforzi, proprio da loro compiuti, per educare la gente al buon cinema o al buon cibo: non si riesce a capire come possano pretendere che la più complessa tra le arti sia invece abbandonata alla pura esperienza sensoriale senza nessun riscontro oggettivo o formativo, sicuri oltretutto che questo non produca, nel tempo, danni economici e sociali ben peggiori del cattivo cinema e del cattivo cibo.
Questa storia, apparentemente lontana anni di luce dalle dinamiche dei centri della cultura dell’arte contemporanea e del target a cui si rivolge questa testata, non vuole essere il segnale di una resa, quanto piuttosto una dichiarazione di guerra per non abbandonare le nostre province in mano a certi gesti irresponsabili, ma anche per evitare che prima o poi questi finiscano per costringere la ricerca artistica d’avanguardia ad arroccarsi sempre di più all’interno di nicchie sempre più in alto per essere ancora in grado di poter interagire con la comunità.
Intanto per evitare che il territorio resti scoperto agli attacchi del terrorismo kitsch e da certi criminali estetici, proprio ad Iglesias il collettivo GiuseppeFrau Gallery sta collaborando con l’amministrazione comunale per la creazione di una Scuola Civica d’Arte Contemporanea, la prima di questo genere in Italia. Hanno già dato la disponibilità a collaborare alcuni tra i giovani curatori ed artisti sardi in prima linea da anni per evitare che la Sardegna diventi dimora privilegiata degli scarti di produzione artistica e culturale spesso provenienti dal Continente. Non sarà una cosa facile e sicuramente saranno in molti a cercare di far naufragare l’idea: non dimentichiamoci che intorno a questa esperienza c’è infatti il territorio non solo più povero d’Italia, ma anche il più inquinato, depresso, politicamente compromesso e culturalmente ostile; proprio per questo un laboratorio irripetibile in cui il fare arte si scontra quotidianamente con l’arte di chi, seppur abbia toccato il fondo, preferisce continuare a scavare piuttosto che cercare di risalire.
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